Monte Sabotino, dove il passato non se ne va

(articolo di Guido Barella pubblicato da Il Piccolo il 28 aprile 2004 nell’inserto dedicato all’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea)

Due casette bianche, strette e lunghe. Fuori, i tavoli di legno con le panche. In fondo, un campetto da basket. Monte Sabotino, quota 563. «Okrepcevalnica», c’è scritto sulla tabella appesa sopra una finestra. «Posto di ristoro». Sulla porta la pubblicità di una birra e l’adesivo del Cai.

Eppure queste due casette erano tutt’altro che «okrepcevalnica»: a ricordarlo la garitta all’ingresso e le grate alle finestre. Fino al 1991 erano l’avamposto dell’Jna, le casermette della guarnigione dell’armata popolare jugoslava di guardia sul confine e su quel campetto in cemento i graniciari si divertivano nei turni liberi dal servizio. Poi la Slovenia divenne indipendente e l’esercito le abbandonò. La vista, da lassù, in questi giorni di primavera è una meraviglia. La verde dolcezza del Collio proprio lì sotto, Gorizia e Nova Gorica con i binari della ferrovia in mezzo, l’Isonzo che attraversa la pianura e scende verso il mare, quella striscia blu là in fondo che si confonde con l’azzurro del cielo. Le due casermette e, subito dietro, un paio di sentieri. Si passa tra le trincee della prima guerra mondiale, i resti di vecchi reticolati di filo spinato, le gallerie che bucano la vetta della montagna per andare ad affacciarsi sopra la valle dell’Isonzo.

Ed ecco un’altra casermetta. Di notte si accendeva il neon tricolore biancorossoverde, era l’avamposto italiano. Rimase presidiato ben oltre il 1991, ora è abbandonato alle erbacce. Da giù, in questa fetta di Sabotino che è Italia, sale la strada militare ufficialmente off-limits, con quei cartelli neri che vietano fotografie e riprese che punteggiano tutti i 216 chilometri del confine, prima italo-jugoslavo e ora italo-sloveno, dal monte Forno al mare.

Un altro sentiero, altre trincee, altri reticolati. E di nuovo non è più Italia. Lo urla quella scritta «Nas Tito», composta da massi bianchi che la natura si stava mangiando e che qualcuno nei giorni scorsi ha voluto pulire per permettere anche a lui, al Maresciallo, di partecipare da lassù alla festa per la trasformazione della Slovenia in una delle stelle d’Europa.

Il confine che dal Primo maggio (aspettando poi che anche Lubiana entri nell’area Schengen) non sarà più confine è anche questo. Una casermetta trasformata in posto di ristoro, un’altra lasciata in balia delle erbacce, una scritta che riemerge dal passato. Perché il passato è ancora lì, sui massi che formano quelle sette lettere sulla montagna, in quella scritta «to je Jugoslavija» («qua è Jugoslavia») già così categorica da non aver bisogno di punti esclamativi che appare sulla facciata di una casa a Kojsko, nel Collio sloveno, nel monumento-museo ai «difensori del confine occidentale» che sta sorgendo sopra Merna, guarda caso visibile più dall’Italia che dalla Slovenia.

«Ma il simbolo maggiore di ciò che questi ultimi cinquant’anni sono stati su questo confine è una città. È Nova Gorica», spiega un geografo, Sergio Zilli, ricercatore dell’Università di Trieste. Già, Nova Gorica, la Gorizia Nuova emblema della lucente alba socialista, vetrina di un mondo nuovo. E per costruirla arrivarono sin qui volontari da ogni angolo della Jugoslavia. Doveva essere una città giardino, larghi viali, grandi marciapiedi, villette. Poi i soldi finirono e nacquero i caseggiati popolari non a caso ribattezzati «ruski bloki»; poi fu l’era dei condomini e dei grattacieli – i simboli del progresso – per rispondere alle nuove mode degli anni Sessanta; poi arrivarono i casinò e trasformarono la città in una Disneyland per adulti senza più riguardo per nulla e per nessuno con il «Perla» che, con il suo dorso a forma di chiglia di nave (!), va a fare ombra alle tre stele che ricordano altrettanti eroi della Resistenza e il «Fortuna» che ha occupato quello che era il tempietto del cimitero ebraico di Val di Rose. Tutto, dall’alba del socialismo a Disneyland, in meno di sessant’anni. Intanto i pezzi di muro della Transalpina sono già souvenir e la stella rossa (che dal tetto della stazione riassumeva in se tutta la retorica di Stato del «to je Jugoslavija» in faccia a via Caprin, che però non era più solo via Caprin ma era l’Italia intera se non l’intero Occidente) giace appoggiata a un muro in un museo. Come le casermette del Sabotino sono state trasformate in «posto di ristoro», la stella – prima del suo tramonto definitivo – era diventata il simbolo dell’ultimo Natale della Slovenia nella Jugoslavia: le avevano appiccicato una coda e l’avevano trasformata in cometa. Poi, passato il Natale e anche l’Epifania, il 7 gennaio 1991, la tirarono via. Non serviva più. È rimasta la stazione, assegnata nel 1947 alla Jugoslavia perché si decise che quella linea ferroviaria doveva essere l’asse fondamentale delle comunicazioni nella Slovenia occidentale, così come all’Italia doveva restare la strada del Vallone in quanto via di rapido collegamento tra Gorizia e Monfalcone. «Sì, perché quelli furono i criteri di scelta – ricorda Sergio Zilli – tanto che poi senza imbarazzo alcuno vennero separate comunità e anche singole proprietà e venne tagliato perfino un cimitero, quello di Merna».

E così lungo il Vallone, sul lato a Est della strada, il bosco era punteggiato dalle torrette d’osservazione dei graniciari che ora sono state «mangiate» dalla vegetazione (se ne scorgono un paio appena, tra Merna e Rupa) mentre nell’area cittadina là dove pattugliavano i soldati jugoslavi ora corre una pista ciclabile che arriva fino alla Transalpina. Ah, la Transalpina, forse l’unica stazione al mondo che non guarda la propria città, perché la città per la quale era nata non è questa sua attuale. Fu inaugurata il 19 luglio 1906 su progetto dell’architetto Robert Seelig, che già aveva firmato la stazione di Campo Marzio a Trieste. E con quella linea ferroviaria per Vienna l’Europa si fece un po’ più piccola. Erano gli ultimi anni dell’Impero. Quanto era diversa allora la geografia di queste terre. Il confine, poi, nel secondo dopo guerra, anche per Trieste sarebbe stato tracciato a pochi chilometri. E per molti, vedere la striscia di territorio con gli alberi abbattuti a tagliare il fianco dei colli carsici divenne un che di rassicurante. Ma, forse, a Trieste il simbolo maggiore del confine che c’era e non ci sarà più è una stazione che non è più stazione: quella delle corriere. Anni fa ci hanno messo una decorazione che si rifà al drappo di un sipario sopra l’alabarda della facciata ed è diventata un teatro, la Sala Tripcovich. Resta però la memoria di cos’era quell’area, piccolo avamposto dei Balcani più profondi, con i pullman che scaricavano nell’aria un fumo irrespirabile, con la gente che attendeva di ripartire accovacciata contro i muri in mezzo a sacchetti di plastica stracolmi di tutto, spesso neri per non far vedere al vicino cosa era stato acquistato. E il confine erano allora gli odori nell’aria in quell’angolo di Trieste. Immagini di un passato sempre più lontano. Quel passato cui appartengono le casermette oggi diventate «okrepcevalnica», i camminamenti militari trasformati in piste ciclabili, i cippi confinari contesi come pezzi da museo.

«I simboli li cambi, li rovesci, li butti via – commenta la sociologa triestina Antonella Pocecco, docente dell’Università di Udine e ricercatrice dell’Isig a Gorizia –. I cippi diventano folclore nostalgico, le strade cambiano nome. Ma ciò che non puoi togliere è la memoria del passato».

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