La Parigi di Maigret

Jules Joseph Anthelme Maigret (“ma nessuno lo chiamava più Jules, a tal punto che aveva quasi dimenticato il suo nome”) era nato a Saint Fiacre, nell’Allier, dove per trent’anni suo padre era stato l’intendente del castello. Ci racconta il suo papà letterario Georges Simenon - che al commissario “inventato” nel 1931, quando uscì il primo giallo, “Pietr-le-letton” e fino al 1972, “Maigret et monseur Charles”, ha dedicato complessivamente 85 titoli tra i quali una raccolta di 19 racconti. E’ da questo mare di pagine che sono tratte tutte le note tra virgolette di questo testo - che Maigret è arrivato a 20 anni a Parigi e a 22 entrò in polizia, sebbene volesse diventare medico e avesse già frequentato tre anni di Medicina quando la morte del padre gli fece cambiare strada. Cambiare strada: oddìo, il suo sogno in realtà era diventare “aggiustatore di destini” e allora ecco che medico o poliziotto non sono professioni così lontane tra loro

L’arrivo in città
Quando Maigret giunse a Parigi dalla provincia “ciò che lo aveva maggiormente colpito era il fervore della grande città, quell’agitazione di migliaia di persone alla continua ricerca di qualcosa. In certe zone strategiche questo fervore era più evidente che in altre, per esempio a Les Halles, in place de Clichy, alla Bastiglia e in boulevard Saint Martin (…). In quella folla dal moto perpetuo lo sconvolgevano, e gli comunicavano come una specie di febbre romantica, soprattutto gli individui che sembravano aver mollato gli ormeggi: gli scoraggiati, i vinti, i rassegnati, tutti coloro, insomma, che si lasciavano andare alla deriva. Poi, aveva imparato a conoscerli, e allora non erano più loro a incuriosirlo ma altri di un gradino più su: i tipi dignitosi e puliti, per nulla pittoreschi, che lottavano ogni giorno per sopravvivere, per farsi illusioni, e per convincersi che la vita vale la pena di essere vissuta”.
Maigret amava Parigi, amava godersi Parigi: “quando era arrivato a Parigi, c’erano quegli autobus con piattaforma esterna, e, le prime volte, non si stancava mai di percorrere i gran boulevards sulla linea Madeleine-Bastille. Era stata una delle sue prime scoperte. E poi, i caffè all’aperto. Neanche di quelli si stancava mai: con un bicchiere di birra davanti, assisteva allo spettacolo sempre nuovo della strada”. Perchè, della città, amava tutto. A iniziare dai profumi: “passando, Maigret ricevette uno sbuffo odorante che rimase per lui la quintessenza dell’alba parigina: il profumo del cafè-crème, dei croissant caldi, con una leggerissima punta di rhum”.

Una Parigi provinciale
I profumi, e le atmosfere. Una grande città, una capitale. Ma anche una città dai ritmi – e dalle figure – splendidamente provinciali. Da Francia profonda. Che Maigret assaporava sin dal primo mattino: “udì, fuori, Parigi che si svegliava a poco a poco; rumori isolati, più o meno lontani, prima distanziati, finirono per formare una sorta di sinfonia familiare. Le portinaie cominciavano a portare le immondizie sul bordo dei marciapiedi. Nelle scale risuonarono i passi della commessa del lattaio che andava a posare le bottiglie di latte davanti alle porte”. Già, perché “ogni grande arteria di Parigi ha, sovente parallela, una via più stretta e animata dove si trovano i piccoli bar e i negozi di generi alimentari, i ristoranti degli autisti e gli alberghi a buon mercato, i parrucchieri e i piccoli artigiani”. Un esempio? “Dalle parti di rue de Picpus alcune portinaie avevano sistemato una sedia davanti al loro portone, come in un paesino di provincia”. Oppure: “al numero 18 di rue de la Roquette, Maigret trovò un albergo di infimo ordine. Quella parte della via è situata a meno di cinquanta metri da place de la Bastille e vi sbocca la rue de Lappe con le sue balere e le sue bettole. A ogni porta c’è un bistrot, ogni casa è un albergo frequentato da vagabondi, disoccupati cronici, immigrati e prostitute. Eppure in questo inquietante rifugio della malavita trovano modo di inserirsi delle officine dove, a porte spalancate, si lavora col martello e la fiamma ossidrica, in un andirivieni di pesanti autocarri. E si crea un violento contrasto fra la vita attiva, gli operai regolari, i commessi indaffarati, con in mano le loro bolle di consegna, e le figure sordide o insolenti che si aggirano nei paraggi”. E ancora: “…tra i due negozi si apriva una specie di vicolo cieco, tanto stretto che lo si notava appena. Era solo un passaggio tra due muri, senza illuminazione, che conduceva probabilmente in qualche cortile, come molti altri in quel quartiere”.

Bistrot e brasserie
Ecco, questa Parigi della quale sembra quasi di rivivere – attraverso le parole di Simenon – profumi e colori si esalta nei bistrot e nelle brasserie, i veri simboli di una capitale che – allora più di oggi, ma in fondo ancora oggi – ha sempre saputo tenere viva la prima anima provinciale. “In quel piccolo bistrot, come in molti altri caffè e bar di Parigi, Maigret aveva immediatamente sentito l’atmosfera delle osterie di campagna, vuote per la maggior parte della settimana e d’improvviso affollate nel giorno di mercato”. Brasserie all’antica, dunque, “con le bocce di metallo per gli strofinacci, un banco di marmo dove una cassiera doveva prendere posto davanti al registratore di cassa e specchi tutt’intorno alle pareti. Alcuni cartelli raccomandavano il piatto di crauti e salsicce e il caussolet”. Bistrot dall’arredamento tipico, “con il bancone, gli specchi alle pareti, gli sgabelli e, in un angolo, quattro giocatori di scopone”. Già, perché “fanno presto a formarsi le abitudini, nelle osterie di quartiere”.
E Simenon li racconta, questi locali. Ad esempio il bistrot ‘Chez l’Auvergnat’: “questo locale era un bar vecchio stile col suo banco tradizionale, le bottiglie di aperitivi che nessuno, tranne gli anziani, beveva più, e il proprietario in grembiule blu, le maniche della camicia rimboccate e il viso ornato di baffi neri. Salami, polpette, formaggi a forma di zucca, prosciutti dalla cotennagrigia, come se fossero stati conservati sotto la cenere, pendevano dal soffitto, ed erano messe in mostra grosse forme di pane, arrivate direttamente dal Massif Central. Oltre la porta a vetri, la padrona, magra come un chiodo, era affacendata ai fornelli”. Oppure “c’era, in rue Miromesnil, avanzo dei vecchi tempi, un piccolo ristorante buio dove il menù era ancora scritto su una lavagna e dove, attraverso una porta a vetri, si vedeva la padrona, enorme su delle gambe simili a colonne, affacendarsi davanti ai fornelli. I clienti abituali avevano il loro tovagliolo su una mensola suddivisa in scompartimenti e aggrottavano le sopracciglia quando il loro posto era occupato. (…) Alcuni vecchi ispettori di rue des Saussaies frequentavano il locale e anche degli impiegati come non se ne vedono quasi più e che vien fatto di pensare con le mezze maniche di lustrino davanti a vetuste scrivanie nere”.
Ecco, “a Maigret piaceva, ogni tanto, mangiare così, da solo, lasciando vagare lo sguardo su uno sfondo vecchiotto, su dei personaggi che il più delle volte lavoravano su cortili interni, dove si trovano degli uffici inimmaginabili, contenziosi, prestiti su pegni, commercianti di francobolli”. Immagini, suggestioni. “Si leggeva, sulla vetrina debolmente illuminata, la scritta ‘Chez Jules’. Spinse la porta a vetri addobbata da una tenda color crema ed entrò in un’atmosfera così calma che pareva irreale. Lo si poteva credere un quadro. Era un bar all’antica, col pavimento coperto di segatura e un forte odore di vino e di alcol”. Vere e proprie emozioni. “Già il posto era fuori dall’ordinario. In quella strada di palazzine signorili e di case dagli affitti elevati, il Vieux Calvados pareva un’osteria di campagna che si fossero dimenticati di demolire quando Parigi si era estesa in quella direzione. La costruzione era bassa e stretta. Si scendeva uno scalino e ci si trovava in uno stanzone piuttosto buio ma molto fresco, dove il banco, dal ripiano di zinco, produceva singolari riflessi e le bottiglie sembravano allineate lì da un’eternità. Anche l’odore era unico. Forse proveniva dalla botola che si apriva nell’assito del pavimento e che comunicava con la cantina. Di là saliva una specie di fiato acido, composto di sidro e calvados, vecchie botti e muffa, che si mescolava con altri odori che giungevano dalla cucina. In fondo al locale una scala a chiocciola portava al mezzanino, e tutto l’insieme faceva pensare a uno scenario teatrale, dove il padrone, corto di gambe, molto grasso, con una fronte ostinata e occhi piccoli e brillanti, andava e veniva come un prim’attore”.

I quartieri di Parigi

I boulevards“Maigret aveva sempre avuto, non sapeva bene perché, una certa predilezione per quella zona dei Grands Boulevards compresa tra la place de Republique e rue de Montmartre. Era un po’ il suo quartiere, insomma. Era nel boulevard Bonne Nouvelle, a poche centinaia di metri dal vicolo in cui Luis Thouret era stato ucciso, che andava quasi ogni settimana al cinema con sua moglie, a piedi, tenendosi a braccetto, tanto era vicino. E lì di fronte c’era la brasserie dove gli piaceva tanto mangiar crauti e salsicce. Più oltre, verso l’Opera e la Madeleine, i viali erano più ariosi ed eleganti. Tra le porte Saint Martin e la Republique diventavano labirinti oscuri e formicolavano di gente da fare impressione”. Grandi boulevard, e grandi palazzi. Che lui sognava: “a parte l’odore di fiori che regnava ovunque, le stanze conservavano il loro aspetto abituale. Era un bell’appartamento della fine del secolo scorso, come la maggior parte degli appartamenti di boulevard Haussmann. Camere molto ampie. Soffitti e porte un po’ troppo decorati”.
Montmartre
Ma è nei quartieri popolari che, in realtà, Maigret si trovava maggiormenùte a proprio agio. Ad esempio a Montmartre, dove “tutto è a due passi”, “uno dei quartieri di Parigi in cui la gente rimaneva più a lungo nella stessa casa. C’era chi non scendeva quasi mai in città”. “Più che place du Tertre, diventata una trappola per turisti, place des Abbesses, con la sua stazione della metropolitana, il teatro dell’Atelier, che sembrava piuttosto un giocattolo o un fondale dipinto, i suoi bistrò, le sue botteghe, era per il commissario l’autentica Montmartre popolare e si ricordò benissimo che, quando l’aveva scoperta, poco dopo il suo arrivo a Parigi, in un mattino freddo ma soleggiato di primavera, si era sentito come trasportato in un quadro di Utrillo. Quel posto brulicava di gente modesta, persone che andavano e venivano come gli abitanti di un grosso villaggio nel giorno di mercato, e si sarebbe detto che, proprio come in un borgo, vi fosse tra loro una grande familiarità. Sapeva per esperienza che alcuni dei vecchi non avevano per così dire mai messo piede fuori dal circondario e vi erano ancora negozi che passavano di padre in figlio da molte generazioni”. Un quartiere con i suoi personaggi: “gli autisti che fanno la notte a Montmartre capiscono le cose al volo, spesso capiscono anche quando non si dice loro nulla”. Un quartiere con i suoi scroci: “in rue Clignancourt la pioggia continuava a cadere, fitta e abbondante, ma il commissario se ne rallegrava abbastanza poiché, con quell’atmosfera, la via popolosa, dai negozietti bui e le case misere, armonizzava meglio con il suo stato mentale”.
Montparnasse
Da Montmartre a Montparnasse: “all’incrocio l’affollamento era al colmo. Era mezzogiorno e mezzo. Malgrado il tempo autunnale i quattro grandi caffè all’aperto nei pressi del boulevard Raspail rigurgitavano di clienti, l’ottanta per cento dei quali erano stranieri”.
Tra la Bastiglia e place des Vosges
Maigret ama la zona di place des Vosges, “un quartiere che conosceva bene tanto che gli sarebbe piaciuto andare ad abitare”. Anzi, per un breve periodo, a causa di certi di lavori di ristrutturazione nella sua casa di boulevard Ginard-Lenoir, ci abitò pure. Ecco un risveglio in quell’appartamento: “In casa c’era un buon odore di caffè. Si sentivano gli uccelli e le fontane di place des Vosges. La gente andava al lavoro nel sole ancora fresco e leggero del mattino”. Parole autobiografiche, quelle del papà del commissario: sì, perché Simenon viveva proprio nella meravigliosa piazza quadrata, al numero 21. Appunto, “un quartiere che conosceva bene: a meno di cinquanta metri da place des Vosges, lasciando all’angolo della piazza la stretta rue des Francs-Bourgeois e risalendo per rue de Turenne verso place de Republique, sulla sinistra si incontra prima un bistrot dipinto di giallo e quindi una latteria, la latteria Salmon. Lì accanto c’è un laboratorio dal soffitto basso e dalla vetrina polverosa sulla quale c’è una scritta sbiadita ‘Rilegature artistiche’. Nella bottega accanto la vedova Rancè vende ombrelli. Tra il laboratorio e il negozio di ombrelli c’è un portone ad arco pieno, con la portineria, e, in fondo al cortile, un vecchio palazzo ora disseminato di uffici e di abitazioni”.
Rive Gauche
La Rive Gauche, che bello immaginarla con “un sole quasi sciropposo nelle vie tranquille. E ovunque, sui visi, nei mille rumori familiari della strada, la gioia di vivere”. Oppure osservarla così’, “attraverso le finestre senza tende”, per vedere “la folla delle sartine e degli impiegati prendere d’assalto durante l’intervallo di mezzogiorno le latterie di place Saint Michel, poi il calo dell’animazione, la carica delle sei verso le stazioni della metropolitana e della ferrovia, il passeggio per l’aperitivo. La Senna era avvolta nella nebbia. Era passato un ultimo rimorchiatore, con fanali rossi e verdi, che trascinava tre chiatte. Ultimo autobus, ultimo metrò. I cinema che chiudevano le saracinesche, dopo che i cartelloni pubblicitari erano stati portati all’interno…”
La Senna
E’ una vera e propria passione quella che Maigret nutre per il grande fiume, tanto che il commissario arriva a dire “mi chiedo perché non ci è mai venuto in mente di cercare un appartamento sul Lungosenna”. Ah, la Senna: “la Senna, per quanto sembrasse lontana, era solcata da barche, sandolini, barche a vela in miniatura e, ogni cinquanta metri, da pescatori immobili”. Già, perchè il fiume offre immagini che sono cartoline. Dall’alba (“la Senna si coronò di une nebbiolina lattea che diventò candida e sorse il giorno, rischiarando le rive deserte”) al tramonto (“un sole di porpora tramontava su Parigi e il panorama della Senna e del Pont Neuf era un tripudio di rosso, di blu e di ocra”), sotto la pioggia (“pioveva ancora quel mattino, una pioggia sottile, triste, rassegnata come una vedovanza. Non la si vedeva cadere. Non la si sentiva, eppure copriva tutto come una lacca fredda e creava sulla Senna miliardi di cerchiolini vivi”) o subito dopo un bel rovescio (“pareva che la città fosse stata lavata in acque chiare tanto i colori erano vivi. Una colonna di chiatte risaliva la Senna e il rimorchiatore fischiava lanciando getti di vapore immacolato per annunciare la sua flotta”, oppure “la Senna era grigia quanto il cielo; le chiatte, i tetti, i marciapiedi, avevano tutti dei riflessi di bagnato”).

Le stagioni
Parigi è città da vivere in ogni momento dell’anno, ma sembra essere la primavera la stagione preferita da Maigret.
La primavera
Sì, perché la primavera è stagione che si annusa sin dai primi giorni di marzo: “tutte le mattine, da già dieci giorni, c’era quel medesimo sole e quel vago sentore acidulo di uva spina acerba. Più che altrove si sentiva lungo la Senna il sopraggiungere della primavera”. Maigret ama questa stagione perché “per opera della primavera, c’era nell’aria, nella vita di Parigi, un’allegria puerile. Certi oggetti, certa gente, le bottiglie di latte davanti alle porte, la lattaia in grembiule bianco davanti al suo negozio, il camion che di ritorno da Les Halles seminava nel vento le ultime foglie di cavolo, erano tutti simboli di una serena gioia di vivere”. E poi la città torna a vivere dopo i rigori dell’inverno: “Parigi profumava di primavera. Le gemme degli ippocastani esplodevano e lasciavano sbocciare minuscole foglie di un verde terreno”, e ancora: “Era una delle prime serate che profumavano di primavera e c’era gente seduta in tutte le terrazze dei caffè”. Insomma, “c’era qualcosa di giovane e di allegro, quel mattino, nel ritmo di Parigi: una nuova stagione iniziava, una nuova primavera, e la gente era ottimista”. “Maigret era di buonumore. Da dieci giorni non pioveva, la brezza era leggera, il cielo azzurro pallido e, in quell’ideale mese di maggio, Parigi aveva i colori di uno scenario da operetta”. “Si era a maggio; il sole splendeva e Parigi aveva colori tenui”.
L’estate
L’estate no. Se la primavera è la stagione del risveglio, della rinascita, l’estate diventa la stagione del grande caldo. Del caldo impossibile. E Maigret non lo ama. “Parigi si svuotava. L’asfalto diventava molle sotto i suoi passi. I passanti cercavano i marciapiedi ombreggiati e tutti i tavoli dei caffè all’aperto erano presi d’assalto”. Anche se pure l’estate porta con sé qualche lato positivo: “Parigi era magnificamente vasta e vuota. Nei caffè, intorno alla gare de Lyon, c’era un buon odore di birra e di croissant inzuppati nel caffè. E in una bottega di barbiere del boulevard de la Bastille ci fu tra l’altro un quarto d’ora di indimenticabile lieve felicità. Senza ragione del resto: solo perché s era a Parigi nel mese di agosto, perché era mattina e forse perché tra poco Maigret sarebbe andato a stringere la mano ai suoi colleghi”.
L’autunno
E poi, l’autunno. “Parigi aveva l’aspetto triste delle grigie giornate di ottobre. Il cielo era come un soffitto sporco da cui cadeva una luce cruda. Sui marciapiedi c’erano ancora tracce della pioggia caduta nella notte. I passanti avevano l’aria accigliata come se non si fossero ancora rassegnati all’idea dell’inverno”.
L’inverno
Par di vederlo, Maigret, con la pipa in bocca sbuffante nel freddo inverno parigino: “La pipa che Maigret si accese davanti all’entrata di casa, in boulevard Richard Lenoir, aveva un sapore diverso dalle altre mattine. La prima foschia era una sorpresa piacevole come lo è la prima neve per i bambini, tanto più che non era quella brutta nebbia giallastra di certi giorni d’inverno, ma un vapore lattiginoso nel quale vagavano aloni di luce. Faceva freddo. La punta delle dita e del naso pizzicava, le suole delle scarpe facevano un rumore secco sul pavè. Le mani infilate nel vecchio cappotto dai baveri di velluto, famoso al quai des Orfevres, e che odorava ancora un po’ di naftalina, la bombetta ben calata sulla testa, Maigret si incamminò verso gli uffici della Polizia giudiziaria, senza fretta, divertito, quando all’improvviso una bambina apparve di corsa sbucando dalla nebbia e si scontrò con la sua massa scura”.

Il quai
No, non cercate la brasserie Dauphine. Nella realtà non esiste. Però sì, in quai d’Orfevres, “al famoso n. 38 del quai des Orfevres” alzate gli occhi: “nel suo ufficio Maigret aveva l’abitudine di andare fino alla finestra e di rimanervi fermo davanti, guardando qualunque cosa, le finestre dirimpetto, gli alberi, la Senna e i passanti”. Il quai, come semplicemente lo chiama Maigret, capace di guardare “con affetto l’austera facciata della questura”, con quella scalinata “che perfino d’estate e nel mattino più smagliante riusciva a essere tetra e livida”.
Ed è questa, più che boulevard Richard Lenoir, la vera casa di Jules Joseph Anthelme Maigret. Per tutti, semplicemente Maigret.
di Guido Barella

 

 

 

 

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Una Risposta a“La Parigi di Maigret”

  1. ottime informazioni..

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