Jeri, 15 dicembre 1956

Jeri era lì. Infagottato nella sua divisa da graniciaro, sempre troppo grande o troppo piccola, comunque di una taglia sbagliata, con la bustina con la stella rossa in testa, era di turno alla torre di guardia di Vrtojba. Par di vederlo, con il kalashnikov appoggiato di traverso sulla schiena mentre, per ingannare il tempo, con una matita lascia il suo ricordo su un mattone della garitta. «Jeri», appunto, scrive in caratteri cirillici. E la data: «15/XII/56».

Quella, proprio alle spalle della caserma italiana che oggi ospita la Guardia di finanza, è una delle tre torri di guardia che ancora esistono lungo il confine nell’area goriziana. Così come quella di Plessiva, nel Collio, è tutelata dal Comune come monumento di interesse locale. Quella di Merna, invece, no: quella ospita un pollaio… Ebbene, questa torre di guardia di Vertojba è stata affidata dal Comune al Goriški Muzej: su progetto del direttore Andrej Malnic è stata ripulita per bene, all’interno è stata sistemata una scala a chiocciola (i “graniciari” si arrampicavano invece in verticale su pioli di ferro fissati ad angolo nei muri) e sulle pareti sono stati realizzati maxi collage fotografici che raccontano la storia del confine goriziano. E’ stata inaugurata alla vigilia del Natale 2006, e ha accarezzato anche il sogno di finire nel libro dei Guinness come museo più piccolo del mondo tanto che è arrivata anche una commissione da Londra per visionarlo. Ma niente da fare: non è prevista questa categoria…

All’interno della porta, ad accogliere oggi il visitatore, la foto a grandezza naturale di un graniciaro. Forse, Jeri. O forse il soldato Adamovic, che incise nel legno il numero dei giorni di naja che ancora lo attendevano, 89, mentre meglio stava il soldato Galic, giunto a «009» (scritto proprio così) giorni dalla fine. Loro, i soldati del Knoj, Korpus narodne obrambe Jugoslavije, il Corpo della difesa nazionale jugoslava, o della Jugoslovanska ljudska armada (l’Armata popolare iugoslava), controllavano la linea di confine da lassù e tutt’attorno, in un raggio di almeno cento metri, i contadini non potevano coltivare niente che fosse più alto delle patate. «Stoj», «Alt» gridavano quando vedevano un’ombra. Spesso, sparavano. Quanto spesso non si sa. Molti studi non ce ne sono, ma un ricercatore sloveno, Jakob Marušic scrive che tra l’aprile 1949 e il dicembre 1950, sul confine goriziano furono catturate 1646 persone e ne furono uccise 26. Una licenza a casa per ogni fuggiasco bloccato per i soldati con la stella rossa, ragazzi che arrivavano dal Sud della Jugoslavia, sbattuti a fare il servizio militare a centinaia e centinaia di chilometri da casa, in una terra che era sempre Jugoslavia ma della quale non comprendevano la lingua e nemmeno, spesso, la scrittura. Sì, una licenza a casa era davvero un bel premio.

«Chi cercava di scappare verso l’Occidente? Jugoslavi delle repubbliche più lontane, serbi e bosniaci soprattutto – spiega Andrej Malnic, direttore del Goriški Muzej che ha voluto la trasformazione della torre in micro-museo -. Raramente sloveni, anche se è famoso il caso di Nova Vaš: tutti gli abitanti del paesino alle spalle del Vallone volevano scappare in Italia ma qualcuno tradì. E non ce la fecero. Inoltre, pochi sanno che attraverso questo confine in tanti, cinquemila circa, scapparono anche in senso contrario». Erano gli italiani che sognavano di partecipare alla costruzione del socialismo: se ne conosce il numero perché una volta varcato clandestinamente il confine finivano in qualche caserma e venivano interrogati. E quindi registrati.

Già, le caserme. Quelle dei “graniciari” erano ovunque lungo il confine, ma la principale, da queste parti, era ad Ajševica, all’imbocco della valle del Vipacco. Altre, adesso, hanno fatto una strana fine: «okrepcevalnica» («posto di ristoro») c’è scritto su quella sul Sabotino e destino analogo ha avuto anche quella vicino alla Transalpina, diventata un bar, circolo di pensionati. Eppure i “graniciari” rimasero a pattugliare questo confine fino al 1991, fino all’ultimo giorno di appartenenza della Slovenia alla Jugoslavia. E in coppia continuavano ad arrampicarsi anche quassù, in cima a queste torri di guardia. Ma questo era già diventato «il confine più aperto d’Europa». E dagli anni Cinquanta – come scrive ancora Jakob Marušic – “la paura dei soldati dell’Armata popolare jugoslava era stata sostituita dalla paura dei doganieri: quando in Jugoslavia c’era una sostanziale mancanza di tutto, i doganieri controllavano rigorosamente tutto ciò che la gente comperava oltre confine”.

di Guido Barella

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