La domenica delle scope

Il 13 agosto del 1950 molta gente che viveva nei paesi attorno a Gorizia rimasti tagliati fuori dalla città dal confine appena nato, decisero di passarlo senza troppe cerimonie, per riguadagnarsi una giornata di “normalità”, di visite, compere, vendite, di bevute nell’osteria che da sempre avevano frequetato, ma che era rimasta in un’altra nazione che non si poteva visitare. E’ passata alla storia come la Domenica delle scope. A raccontarla sulle pagine di Isonzo-Soca (numero 13, primavera 1994), un testimone d’eccezione: Darko Bratina, uno degli intellettuali che, insieme ad altri ma più di altri, ha lavorato per una ricomposizione culturale e umana della città. Purtroppo è mancato nel settembre 1997, prima di veder scomparire il confine. 

Gorizia, 13 agosto 1950. Avevo otto anni. Al mattino presto arrivò a casa la notizia che in giornata sarebbe stato possibile incontrare i parenti che non vedevamo ormai da tre anni, per la precisione dall’autunno del ’47, quando improvvisamente il confine ci separò.

Quasi fosse un evento atteso, mio padre prese me e mio fratello e di corsa ci precipitammo al valico di Casa Rossa, senza pensarci un attimo e con inaudita rapidità.

Il valico era piuttosto rudimentale. Qua e là erano dislocati diversi cavalli di Frisia con intorno matasse di filo spinato che si snodavano fin dentro il cortile dell’edificio, oggi sede della Polizia, ma allora ancora uno degli ospedali di Gorizia dove, ci disse papà, anni prima moriva Lojze Bratuz. Al posto dell’attuale palazzina del valico si trovava una nota trattoria, chiamata appunto Casa Rossa per il suo colore esterno e famosa per aver avuto come attrazione un bellissimo pappagallo parlante.

Arrivati a Casa Rossa ci trovammo in mezzo a un mare di gente composta e silenziosa come fosse in attesa di un rito inedito. Ci mettemmo in fila davanti ad un improvvisato ufficio di polizia dove bisognava dare i propri nomi ed i nomi dei parenti che si presumeva si sarebbero presentati al di là del confine. Dopo una lunga attesa in fila l’operazione venne espletata. A quel punto ci spostammo in mezzo alla folla per un’attesa ancora più lunga, l’attesa della chiamata che era tutt’altro che sicura. parecchie ore dopo, ormai stanchi per il pesante caldo estivo e con l’angoschia di dover tornare a casa a mani vuote, ecco che l’agente di polizia, che di tanto in tanto usciva dall’ufficio per chiamare ad alta voce i “fortunati”, pronunciò anche i nostri nomi, segno certo che di là c’era qualcuno ad aspettarci.

Varcammo la frontiera in mezzo al filo spinato spostato e per l’occasione sostituito da un grande cordone di canapa, una “funeporta” che di volta in volta veniva aperta dagli agenti di polizia per far passare piccoli gruppi di persone. Pochi passi ed ecco finalmente il luogo degli incontri sotto il cavalcavia ferroviario, tuttora esistente, dove parentele momentaneamente ricostituite si abbracciavano e si scamnbiavano dei piccoli doni.

Mio padre avvistò subito suo fratello accompagnato da una sorella e da una nostra cugina. L’emozione negli abbracci fu forte. Risa di gioia e lacrime. Scambio veloce di doni e di rispettive notizie familiari e poi di nuovo il distacco. Il tempo concesso era pochissimo, bisognava dare il turno agli altri che erano tanti ed attendevano, come prima noi, tra incertezze e speranze.

Ritornammo di qua, ma lentamente. Ci fermammo in trattoria per dissetarci e forse perrestare là un po’ di più con la segreta speranza, chissà, di un possibile replay dell’incontro. Commentammo con altri questa situazione così disumana nelle forme ma umanissima nella sostanza, quasi a voler prolungare con altri il colloquio con i parenti troppo bruscamente interrotto.

Era già molto tardi, forse le due del pomeriggio, quando fummo colti tutti di sorpresa nel sentire un incredibile crescendo di volume di voci e rumori della folla, fino ad allora pressochè silenziosa, che culminò in uno strano e sonoro boato umano cui seguirono ondate di folla in rapida corsa da Casa Rossa verso la città. Si caprì immediatamente che il confine era stato forzato dalla massa accaldata delle persone dell’uno e dell’altro versante, in modo del tutto spontaneo. Le rispettive zone confinarie furono letteralmente invase. Le forze dell’ordine si erano rivelate del tutto insufficienti e inadeguate per bloccare una marea di gente così imponente. Il confine era stato rifiutato, rigettato e negato con una pacifica invasione. Che atto di civiltà nel pieno della Guerra fredda! Oggi potremmo dire di aver allora assistito alla caduta del “muro di Berlino” prima della sua stessa erezione.
Nella situazione creatasi cercammo nuovamente i parenti per rivederli ma il tentativo andò a vuoto. Dopo un po’ mio padre decise di tornare a casa. Successe allora un altro fatto straordinario. La città, invasa dai “clienti” forzatamente assenti da qualche anno, aprì le saracinesche dei negozi, come fosse un evento programmato. In quella assolata domenica d’agosto in pieno pomeriggio miracolosamente rifiorì, seppur per poche ore soltanto, l’antico e naturale commercio della città. In contemporanea, al di là del confine, l’abbiamo saputo poi dopo, si riempirono le trattorie ed i tradizionali luoghi delle escursioni domenicali dei goriziani. Nei negozi gli scambi, per mancanza di moneta, avvennero spesso in natura: uova, burro, grappa o qualche gallina contro utensili, caffè… e tante scope di saggina, merce in quel periodo chissà perchè molto rara nel giovanissimo paese realsocialista.

Verso sera, al calar del sole, ritornammo ancora nel centro della città osservando lunghe file di persone che  ordinatamente tornavano verso Casa Rossa. Di tanto in tanto dalle file spuntavano delle scope ben tenute sulle spalle. Il tutto senza il minimo incidente.

Un’immagine eccezionale. Una domenica indimenticabile passata alla cronaca e registrata nella memoria collettiva come la domenica delle scope. Pr una giornata almeno il confine fu “spazzato” e le scope vi apposero una speciale firma simbolica. Per me è stato un imprinting forte. Capii allora in modo definitivo la tragedia dei confini e da allora cominciai a sognare la cancellazione di questo nostro confine anche perchè, pochi anni addietro, nella primissima infanzia, non ne avevo mai visti. Avendo adesso assistito alla sua nascita spero di poter vivere abbastanza per assistere prima o poi alla sua definitiva estinzione.

Darko Bratina

(da Isonzo-Soca, numero 14-Primavera 1994)

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