In bicicletta lungo le tracce della Parenzana e attraverso l’Istria minore

Partire da casa propria per affrontare un viaggio, anche se breve, senza l’ausilio di mezzi a motore ti pone in una lisergica sensazione di conquista. Un itinerario questo, sognato da tempo, ma mai concretizzato per mancanza di tempo e del compagno giusto. Qualcuno che, come me, sia sufficientemente bolso e amante della contemplazione per affrontare duecento e passa chilometri senza porsi traguardi ambiziosi e non disdegnare la sosta frequente.

Al mattino, di buon ora quindi, controllo gli ultimi dettagli sulla bici e mi accerto che non manchi nulla nello zaino. Pressione delle gomme, ricambi vari, camere d’aria di scorta, busta trasparente per riporre le mappe topografiche sul manubrio, che fa tanto cicloturista, e sufficiente riserva d’acqua che andrà ripristinata durante il tragitto. Il tutto per percorrere il tracciato della Parenzana, almeno fino a dove è possibile, per poi prendere la via verso Pola e giù fino a Capo Promontore, ideale Finis terrae della nostra avventura. Percorrendo parte dell’antica Via Flavia, la strada romana fatta costruire dall’imperatore Flavio Vespasiano nel I sec. che collegava Trieste a Pola, ma spesso deviando oziosamente attraverso tracciati minori e sterrati in mezzo agli agri e boschi dell’Istria più autentica.

La linea Parenzana (vedi anche  www.ilpinguinoviaggiatore.it/2012/04/due-musei-per-la-parenzana/), con i suoi 123 km di sviluppo, è stata la più lunga linea a scartamento ridotto tra quelle costruite dall’Impero Austro-Ungarico. I primi progetti nacquero già verso la fine del XIX secolo allo scopo di realizzare un sistema di collegamento tra la costa e l’interno del territorio nord-occidentale dell’Istria allora privo di una qualsiasi rete viaria. Una ferrovia, ancor piccola, costituiva un formidabile mezzo, a quel tempo, per la commercializzazione delle risorse produttive e agricole del territorio che, speravano le popolazioni, sarebbe così uscito dalla sua endemica povertà. Il governo austriaco non volle sobbarcarsi l’onere della costruzione e solo dopo decenni di insistenti richieste ne concesse la costruzione ad una società per azioni che assunse il nome di Localbahn Triest-Parenzo con sede a Vienna e costituita dai comuni interessati e dalla provincia. Nel 1901 iniziarono i lavori e finalmente il 1º aprile 1902 il primo tratto da Trieste a Buie venne aperto al traffico con trazione a vapore assicurata dalle piccole locomotive a vapore saturo tipo U; entro lo stesso anno veniva attivato il restante tratto con l’effettuazione giornaliera di una coppia di treni misti, di 2ª e 3ª classe, che partivano rispettivamente, da Trieste alle ore 9:50, e da Parenzo alle ore 9:35, incrociandosi a Buie, con una percorrenza totale di 7 ore e 20 minuti. Venivano inoltre effettuate una coppia di treni da Trieste a Buie e una coppia da Buie a Parenzo.

La difficoltà del percorso impose la costruzione di numerosissime curve e un saliscendi continuo che ottenne il duplice effetto negativo di dilatare i costi e abbassare la velocità massima. La ferrovia percorreva quasi metà del tracciato in curva con 1.530 metri complessivi di gallerie e 11 tra ponti e viadotti di modesta entità. Le stazioni erano 13 tra le quali si effettuavano una ventina di ulteriori fermate. La stazione sede di deposito locomotive e di officine era Buie mentre a Trieste il capolinea era sito all’interno della Stazione di Sant’Andrea prima e di Campo Marzio successivamente posto al centro tra il fascio viaggiatori della Transalpina e il fascio merci. Il binario era di tipo leggero, da 17,9 kg/m, in barre da 9 m poste su 13 traverse, il che consentiva il massimo peso assiale di 7,5 t e velocità massime di 25 km/h nei tratti in curva e di 30 km/h in rettilineo. Per questo motivo, si racconta che su certe salite, per la bassa velocità, i passeggeri dovevano scendere e perfino spingere il treno.

Nella sua vita relativamente breve ma importante non mancarono problemi di vario tipo – dalla puntualità al prezzo dei biglietti, dal numero dei vagoni alle difficoltà e pericoli dovuti alle raffiche di bora -, quando il 31 agosto del 1935 fece il suo ultimo viaggio, si chiuse per sempre la storia della Parenzana, lasciando un ricordo mitico nella memoria della gente. Dopo essere sopravvissuta alla Prima guerra mondiale e alla caduta dell’Impero austroungarico, continuò ancora per poco a percorrere la terra istriana durante il periodo italiano. Una tratta sempre più improduttiva per quei rari viaggiatori e merce sempre più insignificante. Così, dopo solo 33 anni, i trenini cessarono di viaggiare sotto la pressione dell’avanzata del traffico stradale, più economico e veloce. Senza molti rimpianti fu svenduta all’asta. I resistenti ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie e stazioni, insieme a una gran parte del tracciato che attraversava l’Istria, sono comunque rimasti a testimoniare l’esistenza di questa leggendaria ferrovia che oltre ai punti deboli aveva molti vantaggi, tra gli altri il collegamento modesto ma vitale di una moltitudine di valori multiculturali del territorio che percorreva.

Mettersi a pedalare negli ultimi giorni di luglio potrebbe essere una cattiva idea, ma la mattina ci regala una temperatura attorno ai venti gradi con poca umidità dopo le abbondanti piogge dei giorni precedenti.

La partenza è fissata a Muggia, dove inizia idealmente l’Istria, aspetto il mio compagno di viaggio Emiliano che arriva da Trieste con la motonave “Delfino Verde”. Il vero e proprio start viene dato in piazza Marconi, preso un caffè propiziatorio, azzerato il contachilometri, fatto partire il segnale gps dell’Iphone che ci accompagnerà lungo tutto il percorso e indossato il caso protettivo, la tappa inizia puntando le ruote in direzione est, verso la strada che conduce a Trieste. Al bivio con la strada per Farnei, giriamo a destra in prossimità del ristorante “Alla stazione” che prende il nome dalla vicina stazioncina di Muggia della Parenzana, ancora visibile, nonostante i restauri lungo la strada.

In questo tratto dobbiamo rilevare un triste fatto di cronaca accaduto il 31 marzo 1910. In quel giorno, bloccati i collegamenti marittimi tra Trieste e l’Istria da una forte bora che raggiunse i 130 km/h, un gran numero di persone prese la corsa pomeridiana del trenino che passato l’Ospo, offrì il fianco alle raffiche e si rovesciò all’entrata della stazione. Quindici furono i feriti e tre i morti.

Il tracciato correndo parallelo al Rio Ospo, proseguiva verso Albaro Vescovà, attuale zona di confine con la Slovenia. Qui purtroppo dobbiamo constatare l’assoluta impossibilità di raccordarci alla pista ciclabile slovena che ripercorre il percorso della Parenzana contraddistinta con la sigla D-8, per cui dobbiamo attraversare le case di Rabuiese procedendo in direzione della caserma dei Carabinieri nei pressi del vecchio confine di stato. A questo punto siamo costretti a percorrere qualche decina di metri attraversando il valico dismesso sulla superstrada principale svoltando immediatamente a destra prima del distributore di benzina. Qui il tracciato viene segnalato con una tabella blu e scritte bianche.

Dopo una piccola rampa in salita, la ciclabile prosegue in leggera salita in direzione Capodistria raggiungendo la frazione di Scoffie di sotto/Spodnje Skofije in prossimità della piazza con la chiesa di San Matteo del 1673, ricostruita nel 1931 con il particolare campanile in uno stile poco presente nelle nostre terre; da qui poi si procede sulla strada principale per qualche centinaio di metri fino al prossimo incrocio verso Scoffie di sopra/Zgornje Skofije. A questo punto si gira a destra in prossimità della scuola procedendo su di una strada parallela alla vecchia statale. Il tracciato, sempre su strada asfaltata, inizia a scollinare attraversando un fitto bosco in direzione sud-ovest aprendo poi a tratti con una bella vista sul vallone di Capodistria.

Dopo alcuni attraversamenti di insediamenti industriali e la nuova superstrada Capodistria-Kozina giungiamo nei pressi della stazione di Villa Decani, attualmente abitazione privata e procediamo attraverso i campi coltivati sotto la frazione di Prade. Rientriamo sulla strada asfaltata nei pressi del cimitero di Bertocchi, e dopo poche centinaia di metri in prossimità di una nuova rotonda giriamo a destra prendendo la strada verso Ancarano ma svoltando subito a sinistra per percorrere una strada sterrata che corre parallela all’autostrada e ci condurrà a Capodistria. Il tracciato viene comunque quasi sempre segnalato con le tabelle per la pista ciclabile. Da una parte costeggiamo l’autostrada e dall’altra la ferrovia merci che affianca la riserva naturale paludosa di Val Stagnon, la maggiore zona umida salmastra della Slovenia, già zona di saline.

Prima del degrado, nella meta’ degli anni ’80, la laguna e le immediate vicinanze, con le sue secche, barene e velme, era molto importante per i suoi numerosi habitat: dai canneti, alle paludi salmastre e d’acqua dolce, ai prati umidi e ai cespugli adattatisi ad un clima più caldo. I diversi habitat offrivano nel corso di tutto l’anno le necessarie condizioni di vita ad un grande numero di uccelli. Negli anni ’80 il Comune di Capodistria aveva l’intenzione di coprire tutta la laguna salmastra per farvi una zona industriale o commerciale. Nella laguna vennero depositati in quel periodo più di 280.000 metri cubi di fango. L’area divenne un discarica anche di materiale organico e il corso dei due fiumi che si vi immettevano venne deviato, provocandone il grave degrado. La situazione divenne particolarmente critica all’inizio degli anni ’90, per poi migliorare gradualmente. Attualmente rappresenta una delle più importanti stazioni di svernamento per uccelli acquatici della Slovenia.

Giunti in prossimità del piazzale della stazione dei treni lasciamo il tracciato per una piccola ma doverosa deviazione che ci conduce alla vecchia stazione della Parenzana, attualmente occupata da un bel negozio di fiori con annesso magazzino, al fianco del fondo materiali “Merkur” di fronte alla sede della “VinaKoper” nei pressi del cimitero di Capodistria. Rientrati sulla traccia dobbiamo prestare attenzione ai frequenti attraversamenti stradali, peraltro ben segnalati e sufficientemente protetti cui siamo costretti. Attraversiamo la zona commerciale e prima di entrare nel centro città deviamo verso sinistra in direzione Giusterna. A questo punto la pista ciclabile affianca il mare e, passati gli stabilimenti, prosegue lungo la litoranea a pochi metri dal mare in direzione Isola d’Istria. I tre chilometri di costa che separano Capodistria da Isola sono piuttosto trafficati di ciclisti, pedoni e pattinatori: bisogna quindi percorrerli con cautela rispettando gli altri escursionisti.

Giunti a Isola, cerchiamo con qualche difficoltà la congiunzione con il sentiero D-8 che in questo punto non è segnalato. Bisogna prendere al secondo semaforo la strada a sinistra in direzione Livade e dopo qualche centinaio di metri svoltare a destra, qui dopo cento metri ricompare l’indicazione per il tracciato e ci indirizza su di una strada sterrata che passa in mezzo alle campagne. Attraversiamo una bella zona di coltivazioni e ricca di alberi da frutto, alle spalle della cittadina in direzione sud con la strada sempre il leggera salita. Incontriamo la prima galleria (illuminata) del tracciato in località Saletto, lunga 213 metri, che passa sotto la superstrada che da Isola conduce a Portorose. Da qui poi si riscende attraversando la bella e fertile valle di Aguavìa in direzione Strugnano. E’ questo un tratto molto piacevole, meritevole di una piccola sosta in contemplazione prima di risalire, una volta giunti in prossimità dell’incrocio di Strugnano, e imboccare la lunga galleria Valeta (550 metri) che ci farà risbucare sul versante di Portorose sotto il monte Luzzano (191 m.).

Ora la ciclabile costeggia le case adagiate al versante occidentale della valle e scende fino a innestarsi alla strada Portorose-Lucia correndo a fianco dei numerosi insediamenti turistici presenti. D’estate la strada è piuttosto trafficata e in certi punti bisogna percorrere il marciapiede perché la ciclabile è interrotta. Arriviamo fino all’ingresso del campeggio di Lucia, ex area delle saline di Fasano, dove stabiliamo una piccola sosta all’ombra degli alberi per dissetarci.

Per proseguire dobbiamo attraversare la zona collinare adibita ad esposizione permanente di sculture chiamata “Forma Viva” per ridiscendere sul versante meridionale che ci porta a Sezza. La traccia, su sterrato leggero, qui è nuovamente segnalata e costeggia il canale navigabile di Lera, fino all’ingresso delle saline di Sicciole. Le saline, le più estese di tutta la costa istriana, note fino dai tempi dei romani, formate dall’apporto dei fanghi argillosi del Dragogna sono comprese fra i canali S. Bortolo o Lera e S. Odorico o Fontanigge.
Le case dei salinari, oggi scheletri di pietra, ospitavano fino a tremila persone soprattutto d’estate quando gli uomini lavoravano i campi di sale e le donne cucinavano e facevano il bucato. Nel 1960 è cessata la produzione, sui campi di sale è cresciuta l’erba, mentre nella seconda metà degli anni Ottanta, a causa dell’ignoranza della gente i campi sono stati allagati e distrutti. Recentemente le saline però hanno ripreso vita e produzione, meta di visite e curiosi vi si trova un punto informazioni e un piccolo museo. Qualche Airone bianco e piccoli Cavalieri d’Italia si specchiano nell’azzurro dei campi d’acqua.

A questo punto, dopo un sottopasso, giungiamo tra le case di Sicciole e percorriamo l’ultimo tratto ciclabile sloveno che ci conduce al confine tra Slovenia e Croazia, il valico di Plovania. Oltrepassato, dopo quello sloveno, il punto di controllo croato, prendiamo subito a destra una stradina in corrispondenza dell’ingresso dell’imponente casinò Mulino. La traccia sterrata marcata con un cartello che illustra il percorso del trenino, corre parallela al canale di Fontanigge e dopo una curva a esse procede in leggera ma costante salita lungo il versante nord che offre una bellissima vista su tutte le saline e il golfo di Pirano. Il tracciato qui si fa apprezzare per la sua autenticità, lontano da insediamenti abitativi. Con una meravigliosa vista sul mare veniamo avvolti dai profumi estivi del Mediterraneo e quasi non ci accorgiamo di essere saliti a cento metri sul livello del mare. Anche il fondo è più irregolare, il sedime morbido del percorso sloveno lascia il posto a uno sterrato carsico più impegnativo che necessita di una bici ammortizzata.

Dopo aver attraversato la strada asfaltata per l’insediamento turistico di Canegra arrivati al paese di Zupelia, con una marcata curva il tracciato devia a sinistra per 180 gradi e in prossimità dell’abitato di Valiza incontriamo, seminascosta tra il verde, la stazione ferroviaria di Salvore, l’unica in cui troviamo ancora la tabella originale con il nome della vecchia stazione. Il fabbricato, adattato ad abitazione, risulta abbandonato da qualche anno e conserva un fascino particolare: il tempo qui sembra essersi cristallizzato. Le stalle attigue sembra abbiano ospitato gli animali sino a qualche mese fa, abbandonata in un angolo giace una vecchissima motocicletta, probabilmente degli anni Cinquanta completamente erosa dalla ruggine. La vite davanti alla porta di casa produce ancora diversi grappoli di refosco. Scopriremo poi che il fabbricato è in vendita, anche su internet promosso sui motori di ricerca italiani, a 350 mila euro. Ll’annuncio riporta: “casa in pietra con valore storico: si tratta di una delle stazioni della ferrovia trieste-parenzo, situata vicino a kanegra, uno dei più bei golfi della Croazia, con indimenticabili spiagge rocciose e di ghiaia.” Riesce difficile ogni commento, un patrimonio di questo tipo dovrebbe trovare tutela da parte della comunità locale e possibilmente andrebbero posti dei vincoli all’utilizzo della vecchia stazione, ancora perfettamente conservata.

Riprendiamo la strada in direzione Caldania, dove pensiamo di fissare la sosta per il pranzo. Il tracciato ondulato segue parallelamente la strada asfaltata Valizza-Caldania e si interrompe nei pressi della nuova bretella della Y istriana; qui bisogna portarsi sull’altro lato e riprendere lo sterrato che ci condurrà sulla strada per Buie. Dal momento che è chiusa l’ottima konoba “Malo Selo” di Fratria, dove Neda e Albino sono soliti preparare deliziosi piatti della tradizione culinaria istriana, ci fermiamo sulla strada da Vinicio dove ordiniamo “fusi con sugo de rosto” e una abbondante insalata mista; la carne la decliniamo per evitare di “imbullonarsi alla sedia” alla fine del pasto.
Dopo la sosta, forse eccessivamente prolungata, percorrendo la strada principale prendiamo direzione Buie senza aver dimenticato di riempire le borracce.

Dalla stazione ferroviaria di Buie il tracciato passava in origine dietro la stazione stessa, ma poiché nel frattempo la zona è stata edificata, è opportuno proseguire per la Via della Stazione fino alla strada asfaltata per Tribano e scendere, lungo la prima strada bianca a destra, fino a raggiungere nuovamente il tracciato della ferrovia che prosegue verso la stazione di Tribano. Qui si trova un ampio spiazzo, dove sono ancora visibili le fondamenta della pensilina e del magazzino merci che erano ubicate accanto al binario di carico. Il paese si trova a circa mezzo chilometro a nord, in leggera salita. Qui una poiana si avvicina in volo incuriosita dai solitari escursionisti, marcando con il verso simile a miagolii nasali decrescenti la sua presenza, corrisposta da un altro esemplare dall’altra parte della valle.

La prossima leggera salita porta alla galleria di San Vito, sotto l’antico insediamento di Monte Roman. La galleria è chiusa e parzialmente murata, essendo attualmente adibita a coltivazione di funghi, ma è possibile prendere una deviazione: 100 metri prima della galleria esiste una stradina, in salita sulla destra, piuttosto impegnativa, che taglia la strada per Peroi e scende nuovamente fino al tracciato della Parenzana vicino al paese che si chiama Stazione, dove è situato l’edificio della vecchia stazione ferroviaria. Da qui si può scorgere Grisignana, la “citta’ degli artisti“, da cui la stazione ha preso il nome.

Una sosta nel borgo è d’obbligo: ci gustiamo un gelato presso il belvedere dei musicanti intrattenuti da morbide note jazz arrangiate piuttosto approssimativamente da alcuni giovanissimi ospiti della locale “casa della musica”. Il paese, circondato da una grossa cinta muraria aveva due porte di cui una, la Porta Maggiore, unica conservatasi, preceduta da un arco in pietra ora distrutto, era provvista di ponte levatoio. Dal magnifico belvedere detto “alle mura” presso il sito in cui era posta la porta minore, la vista spazia fino all’orizzonte. Da segnalare in piazza della Loggia la bellissima Loggia veneta del Fontico del 1577, con le quattro colonne in pietra calcarea, come il pavimento. Il paese conquistato dai veneziani nel 1358 rimase sotto il loro dominio fino alla fine della Repubblica. Colpita da una spaventosa epidemia di peste nel 1630, Grisignana divenne un luogo lugubre e desolato, rimase poi per molto tempo, come molti luoghi lontano dalla costa, fuori dalla vita dei tempi. Dopo l’abbandono pressoché totale della popolazione nel dopoguerra, è rinato negli ultimi anni, in gran parte recuperato, è diventato luogo d’incontro di musicisti e artisti. D’estate lungo i vicoli lastricati e nelle piazzette la cittadina si anima per la manifestazione pittorica Extempore  e per numerosi concerti Jazz e di musica classica.

Ristorati, riprendiamo la marcia scendendo, accanto alla chiesa di S. Cosmo e Damiano, dove inizia a scendere la strada bianca per Ponte Porton, traditi dalla distrazione invece di imboccare dopo circa 300 metri, la prima stradina bianca in direzione di Calcini, prendiamo appunto la larga strada sterrata in discesa, acquistando subito velocità. Colti da una inaspettata e infantile esaltazione ci gettiamo a “rotta di collo” giù per la strada bianca che conduce a Ponte Porton saltando sulla ghiaia come euforici ragazzini, salvo poi a metà strada realizzare l’errore, purtroppo troppo tardi per pensare di risalire a riprendere la traccia che comunque faremo in una successiva escursione. Il tracciato in realtà prosegue lungo il lato meridionale dell’altipiano per una strada bianca, ricoperta in certi punti da ciottoli più grossi, e arriva nel paesino di Biloslavo, dove un tempo si trovava la pensilina della stazione che portava il nome di Castagna, il paese più grande situato 600 metri più in basso. Da Biloslavo si apre una vista meravigliosa in tutte le direzioni, sulla valle del Quieto, Montona, Visinada…

Poi il tracciato della ferrovia attraversa la galleria di Castagna (lunghezza: 70 metri) e, come strada bianca, serpeggia fino all’altra strada bianca per Piemonte. Appena attraversata quest’ultima, si trova un edificio in rovina in cui sono inglobati molti blocchi di pietra con la caratteristica sigla TPC (Trieste-Parenzo-Canfanaro), che un tempo segnavano i confini del terreno di proprietà della ferrovia. Al posto di questo edificio diroccato sorgeva un tempo una piccola stazione con la pensilina. La cittadina di Piemonte, ubicata sul monte verso nord, domina il circondario con la sua torre medievale. Continuando a seguire il tracciato della ferrovia, in poco tempo si arriva fino alle due gallerie di Piemonte, lunghe  35 e 28 metri. Dopo la seconda galleria il tracciato attraversa un canalone sul viadotto di Piemonte (lunghezza: 61,8 m – altezza: 20 m). Si prosegue poi attraverso un terreno soffice e poroso. Evidenti i segni di erosioni e frane, specialmente nei luoghi in cui sono stati appositamente costruiti i canali di smaltimento delle acque.

Nella parte sporgente del monte, il tracciato arriva al prossimo incrocio con la locale strada di campagna che porta al paese di Visintini, subito sotto il tracciato della ferrovia; al di sopra della stessa c’è invece Zaberdo. Nel canalone successivo si trova un piccolo cavalcavia in pietra attraverso cui passa una delle strade per Zaberdo. Subito dietro si trova il viadotto di Antonzi (lunghezza: 61,8 m; altezza: 20 m). La strada arriva velocemente sopra i paesi di Antonzi e Krti, dove incontra la storica ferrovia. Da qui si apre la vista sul monte opposto dalle cui pendici la Parenzana scende a valle. Per una strada di ghiaia grossa e attraverso un boschetto di conifere, il tracciato arriva ad una combinazione di manufatti di rilievo: un viadotto (lunghezza: 68,5 m; altezza: 30 m) e la galleria Freschi (lunghezza: 146 m; è necessaria la torcia elettrica!). Una leggera discesa ci porta sotto il paese di Grimaldi, dove un tempo si trovava la stazione di Portole che ha preso il nome dalla cittadina in cima al monte e alla quale vi si arriva attraverso una strada più grande della lunghezza di circa tre chilometri. Sulla sinistra dello spiazzo si può riconoscere il luogo in cui un tempo si trovava la pensilina con un piccolo magazzino. La traccia continua attraverso un bosco di conifere, e molto presto, arriva al viadotto di Portole (lunghezza: 75 m; altezza: 25 m) che attraversa la valle di Molini. Qui la ferrovia girava fortemente a destra e il terreno diventa più tenero, in alcuni punti la massicciata ha ceduto e il tracciato sembra una stradina di campagna. Durante i periodi di pioggia questa parte del tracciato è spesso allagata; vicino al viadotto si trova una sorgente di acqua potabile. Il tracciato continuava a scendere lungo il versante destro del monte Osoie, attraversando un bosco storico intrecciato di liane. Nella parte più sporgente del monte, sotto il paese di Buri, dove si trova una forte curva a sinistra, il bosco finisce, cominciano i prati e si apre la vista sui monti dall’altra parte del fiume Quieto. Il tracciato prosegue serpeggiando, taglia la strada per il paese di Pirelici e arriva a Levade dove si trova l’edificio della grande stazione ferroviaria e del magazzino merci, subito dopo il più grande incrocio del luogo, alla destra in direzione Montona. Nel nostro caso invece giungiamo alla fine della ripida discesa della strada bianca a Ponte Porton nei pressi della trattoria. A questo punto non ci resta alternativa che costeggiare il Quieto lungo la strada asfaltata che conduce sotto Montona percorrendo i lunghi rettifili decisamente poco godibili.
Giunti in prossimità del ponte, ai piedi della cittadina, piuttosto stanchi, facciamo una breve pausa per dissetarci e pianificare il percorso che manca alla chiusura della giornata.

Una volta ripartiti, tagliando le strade per Montona e S. Bartolo ci arrampichiamo lungo il versante sinistro della collina di Montona passando per la frazione di Rezari godendo di una bellissima vista sulla valle sottostante. La stazione ferroviaria di Montona è situata a sud della cittadina, un po’ prima del paese di Canal. Qui troviamo ancora gli edifici della stazione da cui a sinistra parte la strada asfaltata che porta a Canal, mentre il tracciato prosegue a destra attraverso la grande galleria di Montona lunga 222 metri, qui è necessario essere provvisti di torcia elettrica: la galleria è completamente buia. Dietro alla galleria la massicciata arriva all’incrocio con la strada asfaltata Montona – San Pancrazio e si trasforma in una stretta strada asfaltata lunga 1,5 chilometri, fino alla deviazione per il paese di Rusgnac. Qui delle indicazioni ci segnalano un agriturismo a un chilometro. Considerata la stanchezza e il probabile arrivo di un temporale che minaccioso incombe in direzione Grisignana ci consultiamo sull’opportunità di fermarci un po’ prima rispetto alla tabella di marcia prevista. Prevale invece la volontà di proseguire, confortati dalla tabella (scopertasi poi errata) che dal ponte di Montona dava una distanza dell’abitato di Spinovci a 8 chilometri. Qui poi il tracciato spesso non viene più segnalato e la cartina ci è nemica, forse perché l’ultima volta che l’abbiamo consultata eravamo in qualche campo scout col prete. Oltrepassata una carcassa di capriolo, giunti  prima dello spiazzo dove un tempo si trovava la stazione di Caroiba, la strada bianca gira a sinistra fino alla strada principale Montona-Caroiba, mentre il tracciato, di larghezza normale, prosegue arriva al viadotto Krvar (lunghezza: 40m; altezza: 15 m) che attraversa l’omonimo torrente, quindi prendiamo la direzione sbagliata costringendoci a un rapido dietro-front.

Sempre più stanchi procediamo in leggera salita serpeggiando attraverso numerosi canali fino allo spiazzo dove si trovava la stazione ferroviaria di Raccotole. E qui inizia a piovere, prima debolmente, poi sempre più insistentemente e in attesa di incrociare la strada asfaltata Pahovici – Spinovci indossiamo il k-way per ripararci dal temporale. La massicciata continua in leggera salita, con il canale del torrente Sabadin attraversato dal Grande ponte ossia dal viadotto Sabadin o S. Vitale (lunghezza: 64 m; altezza: 20 m). Il posto merita sicuramente una fotografia, ma il buio ormai incombente e la pioggia ci fanno proseguire velocemente. Giunti al bivio ci lanciamo lungo la discesa asfaltata che ci porta all’agriturismo di Mario Tikel, con un ultimo strappo in salita. Nel tratto in discesa per le vibrazioni subìte, perdo la lampadina led posizionata sul manubrio che si fracassa sull’asfalto davanti alla bici del mio compagno. Poco male penso, oramai siamo arrivati e della lucina sicuramente non avrò più bisogno.

Giunti al locale, si materializza il dramma, non c’è posto per dormire, è il fine settimana del film-festival di Montona, quindi l’agriturismo è pieno, così come verosimilmente sono piene le strutture vicine. Inizialmente, probabilmente viste anche le nostre condizioni, la gentile ragazza al bancone prova a chiedere se nelle poche case attigue c’è qualche disponibilità, purtroppo però senza risposte positive.
Provo a chiamare un numero che mi ero segnato di un agriturismo a Visinada che però non ha posti disponibili, la ragazza nel frattempo prova a telefonare nelle poche strutture vicine chiedendo se ci sono delle camere disponibili. Il posto alla fine si trova in un agriturismo a Jadruhi a 11 chilometri a sud sulla strada in direzione Pola (6 chilometri di sterrato e 5 sulla strada). In condizioni normali una tratta fattibile, ma con la pioggia e con solo una luce a disposizione, con già una novantina di chilometri nelle gambe l’impresa si fa dura. La ragazza ci suggerisce di prendere una scorciatoia imboccando un sentiero nel bosco in modo da riprendere la Parenzana in un tratto più avanti rispetto a quello che abbiamo lasciato per scendere all’agriturismo. Il viottolo però non è ciclabile e dobbiamo spingere la bici in salita sotto il temporale con le scarpe che scivolano sui sassi lucidati dall’acqua. Tempo di pensare a una bistecca alta tre dita con contorno di patatine a fiammifero che scorgiamo la fine del bosco e relativa salita impossibile.

Finalmente rientrati sulla traccia della ferrovia riprendiamo a pedalare nel buio, e dopo qualche chilometro fatto in tensione e facendo attenzione a non infilarsi in qualche buca scorgiamo a distanza le primi luci dell’abitato, mai la civiltà è stata tanto bramata. Dopo ancora qualche centinaio di metri ci innestiamo nella strada principale in direzione Pola. La strada però, una volta usciti dal centro abitato è completamente buia, e la notte piovosa senza luna non aiuta a renderci visibili alle macchine che ci passano velocemente. Cerco di farmi sogliola ai bordi della carreggiata, cercando di schivare, per quanto possibile le buche piene di acqua spesso centrate dalle vetture in sorpasso. Nei tratti di leggera discesa bisogna poi fare particolare attenzione: perdere aderenza in queste condizioni è un rischio che non ci possiamo proprio permettere. Chiediamo, senza fortuna, anche a una konoba poco fuori Visinada informazioni su posti dove dormire.
Il contachilometri supera i 100Km mentre cerchiamo di fare attenzione alla tabella che dovrà indicare l’agriturismo. Nel buio e sotto la pioggia risulta difficile scorgere le indicazioni non illuminate. Fortuna vuole che la tabella in legno sia sufficientemente grande da rendersi visibile anche in queste condizioni. Prendiamo così la strada di ghiaia sulla sinistra che ci conduce all’agriturismo. Ricorderemo a lungo le facce dei clienti quando ci materializziamo nel buio della sera sotto il nubifragio imbruttiti dalla stanchezza e sporchi di fango. Cerco di mantenere una posizione eretta e sufficientemente disinvolta chiedendo all’oste conferma della disponibilità della camera.
Infreddoliti, rimessi in sesto da una caldissima doccia, ci mettiamo a tavola quando ormai sono passate abbondantemente le dieci e mezzo. Fusi con pancetta e funghi con una ricca insalata di stagione ci rimettono in vita; nel dopo cena commentiamo con il gentile signor Simonovic, titolare dell’agriturismo e conduttore per tanti anni della trattoria a Visinada, la foto di un magnifico esemplare di “boscarin” di qualche decennio fa che fa bella mostra appesa alla parete del locale. Il bue gigante istriano oggetto ora di tutela e ripopolamento, ha rischiato l’estinzione causa l’abbandono dell’animale da lavoro, avvenuto con la meccanizzazione delle tecniche agricole. Il nome stesso della razza evidenzia la vocazione originaria del Boscarin: grazie alla sua mole, che può raggiungere facilmente la tonnellata, questo animale è stato da sempre utilizzato per la sua forza lavoro. Basti pensare che non solo i romani se ne servirono per trasportare dalle cave di pietra bianca i massi impiegati per costruire l’Arena di Pola, ma anche i veneziani, si servivano dei possenti buoi istriani come macchine da tiro. Il Bue Gigante presenta un manto bianco latte, grigio negli esemplari giovani, lunghe corna a lira nella femmina e a mezza luna nel maschio. Un tempo veniva utilizzato anche per il latte e l’ottima carne. “Fazevimo però frollar la carne anca quaranta giorni, perché la iera sai dura”. La serata si chiude così, tra chiacchiere e ricordi, stanchi, con le gambe di ghisa, sbollita l’adrenalina ci apprestiamo a guadagnare la camera. Ci abbandoniamo al giusto sonno ristoratore in compagnia di crampi e zanzare.

Il giorno seguente lasciamo definitivamente la traccia della Parenzana che a Visinada, attraversata la strada, continua con una marcata curva a sinistra e, fra le case, parallelamente alla strada per Parenzo, arriva molto presto alla stazione ferroviaria di Visinada. Dietro la stazione, dove oggi ci sono delle case private, sarà facile riconoscere lo spazio in cui, una volta, il treno si fermava. Oggi il tracciato segue la strada asfaltata Visinada-Parenzo. Dopo una buona ma non abbondantissima colazione fatta di pane appena sfornato e marmellate artigianali, ci rimettiamo in sella raggiungendo la strada principale e girando immediatamente a destra prendendo uno sterrato in mezzo ai boschi che ci porterà a Bascotti. Attraversato l’abitato e superate le frazioni agricole di S. Marco e Bochicci, pedaliamo in direzione Visignano, dove contiamo di fare una piccola sosta per una corroborante “marenda”. Le gambe girano piuttosto molli e non riusciamo a prendere il ritmo giusto: la fatica del giorno prima non è ancora smaltita; ci regaliamo una sosta contemplativa prolungata nella piazza principale del paese. Visignano è un paesino dell’Istria centrale, posto a circa quindici chilometri da Parenzo, circondato da ubertose campagne con poco più di duemila abitanti, molto tranquillo, dotato di municipalità, scuole e di una minima attività industriale nel circondario. Da visitare la chiesa di S. Antonio (sec. XV) e il duomo dei SS. Quirico e Giulitta (1834) che sorprende per la sua grandezza.
Affiancando un prato, la visione di una casetta poco fuori il centro, con dei panni stesi ad asciugare e nei pressi, delle altalene all’ombra di alcuni tigli secolari, fa insinuare il tarlo del dubbio sulla frenesia della vita in città. A pochi chilometri da casa un’icona bucolica come questa ci conduce ad una riflessione sulle corse quotidiane tra casa / scuola /cercaparcheggio / lavoro / vainbanca / spuntinoperpranzo / appuntamenti / rincorsaperilcorsodidanza / ricercailparcheggio / chiamailcommercialista / sollecitaipagamenti / riprendilavoro / telefonachisaitu / riprendil’autoetornacasa; probabilmente non tutto quello che ci si affanna a fare quotidianamente contribuisce a migliorare la vita. Ma questa è un’altra storia.

Chiediamo indicazioni alla panetteria dove ci riforniamo, indicazioni che ci mandano nella direzione inversa rispetto a quella corretta (mai chiedere informazioni o distanze chilometriche in Istria, riceverete puntualmente indicazioni approssimative). Rientrati sulla via corretta prendiamo la strada verso Sbandati/Zbandaj di circa otto chilometri in direzione sud attraversando le frazioni di Mondellebotte/Bacva e Persurici/Prsurici. Qui incrociamo diversi ciclisti nella direzione contraria, la strada asfaltata è un delizioso saliscendi in mezzo a campi e boschi di rovere. Sbandati o Sbandai è un importante crocevia sulla strada Pisino-Parenzo. Con questo suo nome poco felice, ricorda un episodio accorso nel 1632 quando degli albanesi di Sbandati assalirono dei loro connazionali di Valcarino, dove si erano sistemati qualche anno prima, ammazzando una trentina di persone, sterminando gli animali e incendiando le loro case.
Se il nome non dovesse darvi sufficienti garanzie, a qualche chilometro, verso est, c’è la frazione di Ladrovici. Oltrepassato Sbandati proseguiamo per altri sei chilometri verso S. Lorenzo del Pasenatico per concedersi un’altra sosta e riempire le borracce d’acqua fresca, il caldo comincia a farsi sentire. Il paese appare piuttosto deserto e svogliato, pochi turisti in giro e un paio di ragazzini che vendono sacchetti di lavanda all’ingresso sotto la porta Grande, un arco gotico con il leone di San Marco del XIV sec.

Sostiamo un attimo sotto la chiesa di S. Martino per poi dirigerci sotto un enorme ed ombroso gelso presente in piazza proprio davanti a un bar/market dove sistemiamo le nostre biciclette e ci concediamo una pausa di ristoro. San Lorenzo del Pasenatico era un’antica fortezza militare con cinta fortificata e nove torri lungo il perimetro delle mura. Residenza del Capitano del Pasenatico, da qui il nome, incaricato dalla Serenissima ad organizzare le truppe a difesa del territorio era una città molto ben difesa. Per chi non lo conoscesse, il paese merita sicuramente una visita. Ripartiti, riprendiamo la strada principale in direzione sud che dopo alcuni chilometri ci porta al cospetto del Canale di Leme/Limski Canal. Il canale, profondo 12 chilometri, forma la continuità geografica di quella valle d’erosione che si prolunga per altri 35 chilometri all’interno della penisola istriana. Un enorme solco blu che si addentra nel calcaree delle sue sponde, qui il mare ha una profondità media di 20/30 metri. In passato eccezionale luogo di pesca, oggi vi è precluso sia l’accesso che ovviamente la pesca per l’elevata presenza turistica. In corrispondenza di un belvedere con annesse baracchine di souvenir, olio, miele e altri prodotti più o meno artigianali, molto apprezzati da famigliole tedesche alla ricerca di qualche “ricordino” istriano, decidiamo di prendere un sentiero sterrato che si trova sotto la strada asfaltata in discesa che conduce alla base del fiordo.

Il tracciato inizialmente stretto ma dolcemente digradante, man mano si fa più impervio, con grosse pietre sul percorso ingoiato dalla vegetazione. Il tutto termina poi a pochi metri dal mare con un muro di pietra alto cinque/sei metri. In questo caso, imbracciata la bicicletta, scendiamo a piedi cercando di non mettere i piedi in fallo. La parte orientale e terminale del fiordo chiamata “Cul di Leme” ospita alcune trattorie che offrono piatti a base di ostriche coltivate nel canale.

La strada ora si impenna e sale con pendenza costante del 7/8 % per 2500 metri lungo il versante meridionale del canale, incuneata nel ciglione carsico, purtroppo la strada è stretta e piuttosto trafficata in questo periodo di vacanze, cerchiamo quindi di toglierci al più presto dalle sgasate delle auto/camper/moto in salita.

Superato il crocevia che porta a Rovigno, proseguiamo sempre sulla strada principale per alcuni chilometri fino all’incrocio con la piccola frazione di Moncalvo/Golas; qui abbrustoliti dal sole, piuttosto intenso nelle ore centrali, ci concediamo un’altra sosta per reintegrare i liquidi persi, sull’erba, ai bordi di un bosco di roveri. Consultata la mappa topografica dettagliata, decidiamo di passare per le frazioni di Pisana e Stanzia Bembo, per poi attraverso uno sterrato ritornare sull’asfalto sulla strada Valle-Rovigno. Stanzia Bembo è un interessante esempio di centro abitato, oggi in rovina, vi si trovava la casa padronale, le case coloniche e le stalle oltre a una chiesa dedicata a San Tommaso Apostolo. La chiesa, aperta, offre un singolare frammento di abbandono, presente su di un tavolo in legno un paio di occhiali da vista, lasciati da chissà chi, chissà quando e uno scatolone di imballo di una recente stampante a getto d’inchiostro (…) Una lapide posta sopra l’ingresso riporta la data del 19 maggio 1859. Il silenzio che avvolge questo borgo fantasma rende il luogo, seppur in un contesto estivo, piuttosto cupo e non invita sicuramente alla sosta. Nella radura di Stanzia Bembo, l’Unione dei combattenti antifascisti e gli Antifascisti di Rovigno e della Regione Istriana organizzano annualmente la celebrazione dalla costituzione del battaglione Pino Budicin, primo battaglione italiano che ha partecipò alla Lotta di liberazione alla fine della seconda guerra mondiale. Fondazione del battaglione, avvenuta qui il 4 aprile del 1944. Una lapide posta a vent’anni dal fatto ricorda l’evento.

Ripreso a pedalare, da Stanzia Bembo prendiamo uno sterrato in leggera discesa che però ci conduce più a ovest rispetto al previsto riportandoci sull’asfalto più lontani da Valle di quanto messo in preventivo. Da qui ci attendono altri sette chilometri sulla strada in leggera salita costeggiando distese di ulivi centenari intervallate a terreni incolti in vendita. Giunti a Valle/Bale, ci concediamo una sosta all’ombra nella piazzetta sottostante l’antico centro storico, un insieme di edifici dai tratti gotico-veneziani, di case in pietra, di viuzze strette e ben lastricate. Nonostante siamo a oltre sei chilometri dal mare, si respira una dolce aria di vacanze estive, giovani passeggiano con borse da mare, qualcuno con il materassino sottobraccio, c’è movimento attorno al market per la spesa e un sostenuto andirivieni al bar in piazza. Rimontiamo in sella in direzione Dignano dove dovremmo cercare un posto dove passare la notte. Questa volta vorremmo arrivare ad un ora decente tale da consentire una bella doccia e un cambio prima di cena.

La strada verso Pola, una volta via principale, soppiantata recentemente dalla Y istriana, è un alternarsi di rettilinei e dolci curve in morbidi saliscendi. Nell’avvicinamento, a distanza notiamo il maestoso campanile di San Biagio, 60 metri di altezza, eretto tra il 1815 e il 1883, il più alto dell’Istria. Dignano detiene anche un altro record, quello per aver avuto per prima l’energia elettrica in Istria. Nel 1889 infatti l’imprenditore locale Pietro Marchesi installò pali e fili nella cittadina attivando una prima dinamo mossa dalla forza motrice ottenuta dal vapore e successivamente una vera e propria centrale elettrica. Giunti nella bella piazza centrale del paese con il palazzo Bradamante (1600) oggi sede della locale comunità italiana e il municipio del 1911 in stile neogotico ci dirigiamo verso il locale ufficio di informazioni turistiche collocato all’angolo della piazza. Qui ci accoglie una svogliata ragazza bionda, che vista la nostra richiesta per un pernottamento in zona, ci segnala una pensione in centro o come alternativa un agriturismo in direzione Marzana a dieci, cinque o forse tre chilometri da Dignano. Ci lascia con sufficienza il depliant dell’agriturismo e un’indicazione su come trovare la pensione. Sfinita per l’impegno profuso ci congeda con la fretta di chi deve presenziare ad un ricevimento regale. Proviamo a chiamare l’agriturismo “Sia” senza fortuna: parte una segreteria telefonica in croato anche dopo più tentativi. Un po’ delusi dalla scarsa ricettività del posto, cerchiamo di vedere se la pensione “San Rocco” nei pressi dell’omonima chiesetta ha posti disponibili. Una porta chiusa ci accoglie sulla strada. Un cartellino posto sulla vetrina del ristorante al piano terra indica un numero di telefono da chiamare. Indecisi sul da farsi, proviamo a chiamare il numero cui risponde un tizio con voce tombale. Il posto ci sarebbe, vedrà di scendere (da quale parte?) per farci vedere la camera. Passati cinque/dieci minuti, giusto il tempo per Emiliano di arrotolarsi una sigaretta, compare il nostro uomo scendendo le scale sul retro dell’alberghetto. La sua faccia e le sue movenze fanno pensare ad un improvviso lutto familiare oppure potrebbe aver appena lasciato le dita di una mano nella porta. Chiedendoci il documento ci apre una stanza al primo piano, piuttosto microscopica ma il prezzo, con colazione, è modico quindi accettiamo l’offerta.

Leghiamo quindi le bici sistemandole sul pianerottolo esterno alla pensione con il contachilometri che a fine giornata segna altri 67 chilometri. Dignano ci appare alquanto sonnacchiosa, e non offre troppi punti per ristoro nei pressi del centro. Cerchiamo una konoba o un ristorante possibilmente autentico ma di qualità per la volontà di regalarci un minimo di bambagia dopo due giorni a cavallo di un trattorino a pedali. Dopo una doccia restauratrice ci infiliamo dei pantaloncini freschi e ciabattine per scendere a mangiar qualcosa.
Dopo aver percorso la più lunga via cittadina dell’Istria (un’altra unicità di Dignano) e non aver trovato un locale buono per sfamarci, chiediamo consiglio ad un gruppetto di autoctoni, che parlano in dialetto istro-veneto tra di loro. Dandoci ovviamente tre indicazioni diverse, scegliamo di recarci alla “Vodnjanka” segnalata anche dall’applicazione Iphone sull’Istria. Accolti dal suono di un tristissimo duetto stagionato con violino e pianola, saliamo le scale che conducono al terrazzo superiore con vista sul paese e i panni stesi ai lati, che fa tanto paesino dell’Italia meridionale. Ordiniamo la pasta fatta in casa con erbe e rucola con l’antipasto di olive e polenta con olio locale suggerito e l’immancabile insalata. Non restiamo delusi dalla scelta. Le tagliatelle sono squisite e accompagnate da una freschissima birra, che mi dicono reintegra i liquidi e sali persi, godiamo la fresca bava di vento che si è levata nel frattempo. Verso nord s’intravvedono i prodromi di un temporale estivo. Il cameriere zelante con voce baritonale sguscia tra i tavoli sotto il delizioso pergolato servendo piatti di pasta con il tartufo e tagliate ai funghi, il tutto con caraffe di Malvasia e Refosco istriano. Il tempo di qualche chiacchiera e un’altra sigaretta arrotolata, usciamo soddisfatti dal locale ciabattando in direzione della pensione prima dell’arrivo del temporale.

Il mattino seguente, terzo giorno di viaggio, siamo decisi a fare in fretta per raggiungere Pola e poi procedere in direzione Premantura per concederci un tuffo dagli scogli in tempo per rientrare a Pola per la partenza dell’aliscafo che ci ricondurrà a casa. Partenza prevista per le 17.45. Consumata una veloce colazione fatta di marmellatine confezionate e morbido pane fresco, il tutto accompagnato da un caffè imbevibile, saldiamo il conto alla signora che ci ha servito la colazione particolarmente silenziosa che però parla volentieri da sola, con frasi comprensibili solo a se stessa. Inforcate le bici prendiamo la direzione Fasana. Sulla strada che dolcemente scende verso il mare rugosi ulivi accompagnano il nostro tragitto, piante centenarie come l’olivo della Màsena che, dicono, abbia almeno trecento anni.
Il grado di civiltà di un paese si dovrebbe poter misurare anche con la presenza sul proprio territorio di alberi centenari, testimonianza silenziosa di un mutare del paesaggio. Un patrimonio inestimabile di bianchere, olive buse, rossignole, carbonazze, rovignesi pressoché abbandonato nel dopoguerra, è stato pian piano recuperato dal lavoro di pazienti coltivatori; sono stati piantati nuovi alberi e curati i fondi abbandonati alle erbacce dopo il massiccio esodo, è stata ripristinata la potatura, prima caduta in disuso. “Più te me fa povero e più te fasso ricco” recita un adagio istriano.

In un attimo siamo a Fasana, porto di partenza per le escursioni al Parco Nazionale delle Brioni. Un tempo borgo di contadini e pescatori, oggi Fasana è una cittadina turistica a tutti gli effetti. Un brulicare di escursionisti si spalma sulle rive scrutando le vicine isole.
Da qui, rapida rotta verso Pola lungo la strada asfaltata. Affrontando il traffico domenicale in direzione centro città, puntiamo subito verso le rive dove imponenti palazzi ottocenteschi ci accolgono nella “capitale” regionale. La città odora di storia, il florido periodo asburgico è stato mescolato alle atmosfere balcaniche del secondo dopoguerra. Stride il contrasto tra certi condomini da socialismo reale ed edifici liberty ricchi di decorazioni affiancati in una coabitazione perversa. Giunti sulla Riva, in prossimità dello storico Hotel Riviera veniamo avvolti dal profumo di salsedine e gasolio. Ci accoglie, ancorata al molo principale la sagoma debordante di uno scafo bianco. E’ la Wind Star, un veliero a quattro alberi della flotta Windstar Cruises, varato in Francia nel 1986 e rinnovato nel 1996. La nave dispone di 4 ponti passeggeri ed è in grado di ospitare solo (…) 148 invitati, coccolati in 74 cabine tutte esterne e divise su due ponti: 73 Deluxe di 18 mq. con vista mare; una Suite Deluxe di 21 mq. con letto matrimoniale e angolo soggiorno. Le piccole (“solo” 110 metri) dimensioni della nave fanno in modo che si crei un’atmosfera di intimità, come recita la patinata brochure della compagnia, così come la possibilità di visitare i porti e le baie nascoste delle destinazioni più suggestive del mondo. Sulla Wind Star gli ospiti hanno a disposizione qualsivoglia servizio, tra cui un ristorante raffinato, una piscina esterna con acqua di mare e vasca jacuzzi, casinò, palestra attrezzata, libreria – sala video e una irrinunciabile piattaforma per sport nautici.

A questo punto, rientrati sulla via Flavia, alla base della storica Arena, ci facciamo immortalare da un turista di passaggio con le nostre compagne di viaggio a due ruote. L’Arena, molto famosa, venne ultimata in età flavia (69-81 d.C.). Molto ben conservatasi, poteva contenere oltre ventimila persone, che potevano sedere sulle platee costruite sfruttando l’inclinazione del colle su quale poggia. Oggi ospita concerti e spettacoli estivi di notevole richiamo per tutto il bacino istro-quarnerino. Pola è una città di oltre cinquantamila abitanti, vera e propria metropoli culturale ed economica dell’Istria, appare ai visitatori come centro portuale e industriale per svelare poi il suo lato storico di antico splendore, passeggiando tra i suoi vicoli e stradine del centro storico. Già importante colonia romana divenne, grazie anche al clima mite e al golfo ben riparato, una delle città più ricche dell’Impero. Dopo la presenza Bizantina, Franca e parte del Patriarcato di Aquileia, si concesse a Venezia (1331-1797) e divenne poi importante base militare della flotta navale austriaca. Numerose sono le testimonianze storico-architettoniche di questi periodi. Da segnalare il tempio di Augusto e l’Arco dei Sergi di epoca romana, il palazzo municipale e le numerose chiese di epoca succesiva presenti nel centro con l’importante museo archeologico dell’Istria con relativo lapidario, che raccoglie reperti da tutta la regione.

Rimessi in sella, fuori dal centro storico verso la zona di Stoia, passiamo davanti alla bellissima chiesa della Madonna del Mare in stile neoromanico costruita dalla Marina militare austroungarica nel 1898 presso il cimitero militare.  Prima, percorriamo un lungo tratto di strada costeggiando le alte mura del cantiere navale di Scoglio Olivi, fondato nel 1856 come arsenale della Marina. L’arsenale ubicato su un piccolo isolotto, denominato Scoglio degli Ulivi, era dotato di bacini di carenaggio galleggianti e in muratura, grandi officine coperte, che ne avevano fatto uno dei più importanti dell’epoca. Per evitare le strade più trafficate, uscendo dal centro, decidiamo di costeggiare il mare, allungando un po’ il percorso, in direzione Veruda e Val Sabbion/Pjescana uvala, e giù passando per Val Cacoia, attraversando diverse baie rivolte a ovest già piene di bagnanti. Il tratto è comunque piacevole, mitigato da una deliziosa brezza marina e meriterebbe una sosta rinfrescante, negata dall’esigenza di giungere alla meta prima delle ore più calde. A questo punto mi accorgo di aver lasciato ai piedi dell’Arena, per scattare le foto, i miei guanti da bici, probabilmente su un pilone millenario alla base. Troppo complicato il ritorno per cercarli, decido quindi di immolarli alla causa.

Ripresa la strada principale passato l’abitato di Bagnole, percorriamo la strada che affianca la piatta baia di Pomer. Sulle ultime pendenze del Moncastello un tizio su una mtb, in ciabatte e canotta, che era rimasto incollato alle nostre ruote per alcuni chilometri, ci passa allegramente continuando a mulinare le sue gambe. E’ un’onta che non vorremmo subire, ma la stanchezza è tanta e dopo tre giorni passati in bicicletta, gli ultimi chilometri sotto il solleone sono davvero massacranti. Arrivati sulla strada sterrata all’ingresso che ci conduce a Capo Promontore (Rt Kamenjak), il traffico si fa intenso e un bel numero di autoveicoli sostano in coda per pagare il pedaggio di venticinque kune per accedere all’area. Mancando da parecchio tempo, noto purtroppo che il luogo, probabilmente vista anche la luminosa domenica di fine luglio, è particolarmente affollato. Fauna varia transita alzando nuvole di polvere bianca, numerosa la colonia di turisti italiani, ma numerose anche le vetture olandesi, tedesche e slovene. Non mancano Suv con targa russa, utilitarie ungheresi e dalla repubblica Ceca, si noleggiano pure dei mostruosi fuoristrada aperti a quattro ruote per escursioni “naturaliste” per moderni centurioni. Una delusione insomma.

Capo Promontore è (era?) una rara oasi di natura tra l’azzurro del cielo e del mare posta sull’estremità meridionale della penisola istriana. Una lunga striscia di terra, paesaggio protetto dal 1996 è coperta da una bassa vegetazione fatta di ginestre, salvia, mirto, cisto e altre specie resistenti alla siccità. Spesso il promontorio gode di una ventilazione importante, portata d’estate dal maestrale o dallo scirocco (garbìn) e dalla immancabile bora d’inverno. Piccole e grandi insenature si alternano in un bagno abbagliante di luce e d’azzurro come in nessun altra parte; di notte poi lo spettacolo che offre il cielo è straordinario: mancando fonti di luce vicine si possono contare milioni di stelle. Dopo alcuni chilometri saliscendi su strada bianca e polverosa arriviamo alla nostra meta, il punto più meridionale dell’Istria nei pressi del “Safari Bar” di fronte al mare, in una visione mozzafiato con sulla sinistra l’isolotto di Fenolega, e più in là, lo scoglio di Porer con il suo faro solitario del 1833. Il traguardo merita alcune pacche sulle spalle a vicenda e qualche grugnito di soddisfazione prima di concederci una meritata fresca Karlovacko all’ombra dell’inconsueto bar. Vent’anni fa improvvisato baracchino per surfisti fricchettoni, il Safari Bar è diventato un alternativo fast-food a pochi metri dalle scogliere, nascosto da un fitto canneto, si mimetizza tra gli arbusti in mezzo a improbabili biciclette anni settanta arrugginite, eliche di motobarche, mandibole di squalo, pezzi di navi sparsi e uno scivolo per bambini ingegnosamente costruito da galleggianti per le reti da pesca. Musica lounge accompagna il ristoro degli ospiti. Qui ci spariamo un panino di calamari al riparo dal sole cocente, solo dopo un tuffo liberatorio nelle acque smeraldo del promontorio. La nuotata ci rimette in sesto e ci toglie la patina di polvere assorbita nello sterrato. Il luogo, e la fatica impiegata per arrivarci, meriterebbe una sosta più lunga ma la volontà di rientrare a Pola per tempo, magari per un’ultima sosta in attesa dell’aliscafo non ci consentono altri sfarzi.

Rimessi in tenuta sportiva, riprendiamo la strada di ritorno non senza prima aver fatto l’adeguato rifornimento idrico.
Il tratto di rientro appare sicuramente più breve, complice il traffico nullo in direzione centro città. Gli ultimi chilometri dell’avventura li percorriamo transitando sotto l’Arco dei Sergi fra qualche turista intorpidito dal sole e ripassando sotto l’Arena con la speranza di ritrovare i guanti lasciati in precedenza. Alla fine dell’avventura il contachilometri segna 224. Purtroppo i guanti non ci sono, mi piace immaginare così che se li sia presi un ragazzino del luogo per farsi ancora qualche giro nella meravigliosa terra istriana a cavallo della sua mountain bike.

Siamo in abbondante anticipo per attendere la partenza dell’aliscafo, una volta dissetati cerchiamo quindi di dare priorità all’acquisto dei biglietti. Il consiglio è quello di farli a Trieste prima della partenza, nel nostro caso infatti veniamo rimbalzati tra addetti alla base del molo di partenza con una serie concorde di indicazioni: “si fanno alla biglietteria, sulla Riva, a un chilometro da qui”, “Sì alla biglietteria, ma di domenica è chiusa quindi niente”, “potete farli a bordo” oppure “li fate qui alla base del molo alla partenza”, il tutto tra un italiano poco comprensibile e qualche mugugno di sufficienza. Decidiamo prima di recarci alla biglietteria, che effettivamente appare chiusa, e poi aspettare fiduciosamente nei pressi dell’imbarco. Il “Fiammetta M” intanto è già fissato in testa al molo, il che ci pone in una condizione di sufficiente tranquillità. Lo scafo della TriesteLines è del 1989, può portare fino a 210 passeggeri e grazie ai due motori da 1900 cavalli ciascuno che “bevono” 2500 litri a viaggio può arrivare alla velocità di 35 nodi. Gli anni, effettivamente, li mostra tutti, i finestrini sono opachi, segnati dalle mille traversate in Tirreno compiute negli anni di onorato servizio. I sedili sono parecchio vissuti, ma l’aria condizionata fa il suo dovere. Fa servizio dal 2008 sulla tratta istriana sulla linea Trieste-Pirano-Rovigno-Pola, che quest’anno ha sostituito, fortunatamente per noi, lo scalo di Parenzo. Il comandante è un simpatico baffuto siciliano che esterna spesso insofferenza per l’assistenza al cloroformio negli scali intermedi. Durante l’attesa per la partenza, giungono altri ciclisti per l’imbarco, una famigliola francese, una coppia di triestini e infine un’altra coppia italiana arriva trafelata prima del via. Si imbarcano quindi una decina di persone tutti con la bici, che è gratuita al seguito del passeggero. Cinque minuti prima dell’imbarco arriva anche il nostro uomo con i biglietti, che stupito dal fatto che ne siamo sprovvisti, ci raccomanda la prossima volta (…) di passare alla biglietteria sulle rive. Lui assicura di essere rimasto in ufficio fino a pochi minuti prima.

Con l’imbarco del mezzo termina malinconicamente la nostra pedalata in terra istriana. L’aliscafo lascia gli ormeggi e a mezza velocità abbandona il porto di Pola sgusciando tra l’isolotto di S.Andrea e la lunga diga di Capo Compare. Un caffè espresso preso a bordo e la copia di un quotidiano fresco di giornata in lettura ripristina il collegamento con le abitudini. L’aliscafo costeggia sobbalzando le isole Brioni, accompagnati da un radioso imbrunire di mezz’estate, sprofondati nei sedili vibranti del “Fiammetta M” e abbandonati alla stanchezza, siamo finalmente rilassati ma pronti per affrontare la parte più bella del viaggio, il ritorno a casa, pensando già alla prossima avventura.

(pedalata dell’estate 2011)

di Fabrizio Masi

Bibliografia:
Istria Cherso Lussino, Guida storico-artistica; Bruno Fachin Editore, Trieste 2004.
Dario Alberi, Istria, Storia arte e cultura; Ed. Lint, Trieste 1997.
Dario Macovaz, La U37, appunti di storia ferroviaria, in Borgolauro n.35, Muggia 1999.
AA. VV., Me vien in amente, Ricordi muggesani del XX secolo, Ed. Fameia Muiesana, Muggia 1997.
La pittura e il tempo dell’istriano Pietro Marchesi 1862-1929; Ed. Provincia di Trieste, Trieste 2000.
Light and Salt, Anja Cop photography, ed. Risma, Roveredo in Piano (PN) 2009.
Paolo Rumiz, Vento di Terra; Mgs Press, Trieste 1994.

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Una Risposta a“In bicicletta lungo le tracce della Parenzana e attraverso l’Istria minore”

  1. Andrea ha detto:

    Ciao Fabrizio,
    sono Andrea ed assieme a Giovanna abbiamo visto questa bella mail e soprattutto il dettagliato contenuto.
    Mi/ci riserviamo di leggerlo con attenzione appena tornati da Parigi.
    A priori, come ben sai, un viaggio in Istria è sempre un grande viaggio. Non conta la distanza, ma il luogo.
    Saluti cari, Andrea e Maria Giovanna.

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