Il nostro cammino di Santiago

Il Pinguino viaggiatore pellegrino a Santiago de Compostela. Anzi, i Pinguini (Titti e Guido) pellegrini da Leon a Santiago de Compostela. Abbiamo raccolto la nostra avventura in un libro, un diario fatto di emozioni, ricordi, impressioni, osservazioni. Qua sotto abbiamo riportato il capitolo dedicato alla nostra prima tappa, Virgen del Camino (alla periferia di Leon) – Villar de Mazerife. Chi fosse curioso e volesse leggere tutto il libro può scriverci ai nostri indirizzi e-mail (d.tretjak@libero.it e g.barella@katamail.com): saremo lieti di dirvi come fare per avere il libro.

Buona lettura

Domenica 27 settembre
Virgen del Camino-Villar de Mazarife
13,5 km

Beh, sì, lo sappiamo: non è molto serio iniziare il Cammino in… taxi. Ma noi lo abbiamo fatto. Avevamo letto che l’uscita da Leon è quasi da incubo e in effetti, vedendola dal finestrino del taxi, è proprio così.Una brutta e sterminata (per i piedi!) zona industriale, capannoni a destra e sinistra, con i pellegrini ad arrancare al fianco delle macchine. No, grazie. Almeno questa squallida priferia ce la risparmiamo. Dunque, lasciamo Rudi in albergo (ci ha confidato che in nostra assenza si iscriverà a un corso di flamenco…), chiaiamo il taxi, carichiamo gli zaini e poi via, a La Virgen del Camino.

Guido se l’era immaginata tutta diversa, pensava a un santuario al centro di un borgo antico. E invece potrebbe benissimo essere un quartiere alla periferia di Torino. Un borgo moderno, costruito in verticale lungo lo stradone di Leon, senza alcun fascino, con la chiesa dedicata a Maria appunto moderna anche lei (è degli anni Sessanta, sostituisce quella antica, del 1505, là dove la Madonna apparve a un pastore). Sì, questa è La Virgen del Camino. Dove, appunto, inizia il nostro Cammino. Dove… ci fermiamo subito per una foto. Il taxi infatti ci molla davanti alla chiesa: che serva la benedizione? No, dài, non subito. E così attraversiamo lo stradone e finiamo sullo sterrato, dove inizia il nostro Cammino.

Pochi metri, ed ecco una pozza, un laghetto a voler essere gentili, tondo e con una fuente e la statua stilizzata di Santiago: Titti si appoggia al suo bastone, e con un sorriso tutto fuorché spontaneo si lascia fotografare. Le magliette, i pantaloni, i calzini, le scarpe, sono ancora tutti belli puliti, non c’è ombra di polvere. Come gli zaini, arancione (quello di Titti) e rosso (quello di Guido) sgargianti. Si capisce lontano un miglio che siamo dei novellini… Non c’è una goccia di sudore sui nostri visi, i capelli sono a posto, ma il batticuore c’è. Farsi fare una foto serve a sdrammatizzare, o forse a prendere tempo. Sempre lì, attorno alla pozza, ci facciamo fare la prima foto insieme (e sarà un evento raro) da due signore canadesi che incroceremo più e più volte. Il sorriso di Titti è sempre più tirato, quello di Guido, ma perché non vede l’ora di partire.

Titti ci ha messo un sacco a preparasi stamattina. E’ lenta, tanto lenta: preparare lo zaino, per una disordinata (che per di più non ha fatto la scout…), è un incubo. Non sa dove e come piazzare quelle quattro cose che abbiamo. E poi le cinghie, di quanto vanno tirate? E i bastoncini come si usano? Booh. E così passa mezz’ora. Bere poi è un problema con quelle tasche laterali: o si è in due, o non resta che appoggiare lo zaino a terra. Ma si sporcherà! Che schifo!, pensa Titti cittadina. Già il giorno dopo l’ansia sulla lucentezza del suo zaino arancione verrà cancellata in nome della sopravvivenza.

Altra foto davanti all’indicazione stradale, una gfreccia rosa, “Camino de Santiago”. Stiamo tentando di prendere tempo? Vogliamo farlo davvero? Coraggio, si parte. Bastoncino destro, piede destro, bastoncino sinistro, piede sinistro. Meno male che a chiusura hanno dei tappini, quei bastoncini che aiutano a scaricare il peso della schiena a terra. Altrimenti, ancora più botte sulle caviglie di Titti che disperatamente già lotta per darsi il tempo giusto e mettere d’accordo all’unisono piede e bastoncino telescopico.       

Chozas de Abajo è invece il primo paesino nel quale facciamo una sosta pranzo. Quattro case quattro, si supera la chiesa, moderna, la fontana e… chiediamo a un bambino impegnato con il suo pallone dove sia il bar indicato nei fogli di Titti. Bene: il bar è al centro del paese, più avanti, nella piazza tra una torre campanaria a forma di tripode, una casa di mattoni, appena accennata, che una signora usa come stenditoio, e altre costruzioni piuttosto bruttine. La piazza è uno slargo di cemento. Fa già caldo, è quasi ora di pranzo (italiana). Il bar, pareti giallo e arancione, bancone di granito grigio e rosa, gestito da un quarantenne molto gentile, è in realtà un “circolo”: Associazione culturale e sportiva San Rocco. E’ domenica ed è pieno di vecchietti. Forse perché di venerdì e sabato il locale è chiuso e quindi devono rifarsi… E siccome è un circolo (anche) sportivo la tv è accesa sul Gran premio di F1 e sono tutti molto attenti. Probabilmente alle gesta di Alonso, che in fondo non è nato lontano da qua, visto che è asturiano. Per i pellegrini, oltre, ovvio, al sello, panini e bibite. Ci sediamo fuori, all’ombra, e non siamo soli. Prima di addentare i rispettivi panini al formaggio e al salame, facciamo quello che fanno tutti: ci leviamo le scarpe. Appunto fa caldo, i calzini sono sudati, i piedi sono sudati. E allora non resta che tirarli fuori da quei carroarmati di scarpe e farli asciugare. Respirare. Per non incorrere nel rischio-vescica.

Il panino non è un panino “normale”, è per superaffamati: una sberla che basta e avanza fino a sera. Da una via sbuca un furgoncino, l’altoparlante avverte che vende pane: alcuni pellegrini fanno rifornimento anche per la sera, noi osserviamo la scena attenti a non farci distrarre dal morso al panino e stupefatti per un’atmosfera anni Cinquanta che non immaginavamo proprio.

Davanti al nostro tavolo un bancone con ogni ben di Dio: optiamo per le banane. Il nostro acquisto, 50 centesimi l’una, viene divorato immediatamente.      

Prima – lasciata alle spalle la lunga periferia di Leon, che noi abbiamo saltato pilatescamente in taxi, euro 21.60: carissimo per gli standard spagnoli, ma forse questa è la tassa per pellegrini pigri -, da Virgen del Camino a Fresno e poi a Oncina la strada era stata praticamente sempre asfaltata (salvo qualche pezzettino su uno sterrato di terra rossa, e finalmente sporchiamo la nostra attrezzatura immacolata!), attraverso paesini minuscoli e deserti. Insomma, il nulla, con solo una fontana (almeno quella…) vicino alla fermata del bus. Le case qui, quelle vecchie, sono di paglia e mattone con le porte e le finestre in legno. Se non sapessimo di essere in Spagna, penseremmo di essere finiti in qualche puntata di “Passaggio a Nordovest”. case di paglia e mattone, spesso abbandonate, nel ventunesimo secolo, con davanti panchine senza più una goccia di colore. Chissà da quanto tempo nessuno ci si siede.  

A Oncina però facciamo un incontro inquietante: un tizio, 35-40 anni, moro, magro ma non patito, tutto graffiato sul corpo, che cammina in ciabatte e jeans, a torso nudo con un telo di plastica di giallo a tracolla a mo’ di zaino legato con una corda, che ci racconta – in spagnolo – di aver perso il passaporto. Per questo fa il Cammino al contrario, per ritrovare i suoi documenti. Poi ci ripensa, torna indietro, e ci accompagna per un pezzo: alla fontana dove si lava e si disseta, ci chiede anche se gli regaliamo una camiseta, una maglietta… Quindi scompare lungo un sentiero lontano dal tragitto del Cammino. Mah… Secondo Guido è un detenuto scappato da qualche carcere: d’altra parte, il Cammino serve da terapia anche per chi ha problemi con la giustizia: chi deve scontare pene più brevi, viene accompagnato sul Cammino da psicologi e specialisti. Pare funzioni. (E la maglietta rimane con noi).

Dopo Oncina invece si cammina su una strada bianca, in mezzo al paramo, la tipica campagna leonense dalla vegetazione bassa e poco affascinante, nel quale quelle che un tempo erano le case dei contadini spuntano appena dal terreno quasi fossero grotte scavate nei campi. Appunto, sembra di camminare nel nulla. Ci mancano solo i cactus e potrebbero girarci i film con gli indiani e i cow boy. E allora, niente bar fino a Chozas de Abajo. Quindi, asfalto sotto il sole fino a che non si arriva a Villar de Mazarife.

E’, Villar de Mazarife, è un tipico paesino agricolo: casine modeste, molte abbandonate e, in vendita, con al centro la chiesetta il cui campanile viene utilizzato dalle cicogne per farci il nido e con i vecchietti – solo uomini – che giocano a domino nel bar della piazza gestito dall’unico giovane che abbiamo visto in giro. Il paese è così, come tutti gli altri qua in giro. Nel nostro minitour, troviamo un cavallo “posteggiato” fuori di un altro albergue, l’ostello per pellegrini. Già, ce ne sono quattro, di albergue (non di cavalli): raccomandati sono il Sant’Antonio, dove siamo noi, e il Tio Pepe (quello del cavallo, nella piazza della chiesa); gli altri sono – dicono – in condizioni un po’ così. E poi ci sarebbe anche un Museo dedicato al Cammino, ma è chiuso: forse perché è domenica. Peccato, è in realtà la bottega dell’artista Monsenor, che dipinge in stile romanico ma soprattutto è uno dei fautori della ricostruzione del tracciato del paramo. Da qui a Santiago mancano 319 chilometri. 

L’Albergue Sant’Antonio, privato, è il primo che si incontra entrando in paese, sulla destra. Lo stanzone ha i letti a castello, 6 euro l’uno, ma ci sono anche camerette da due, a 30 euro. Optiamo per lo stanzone, è l’ennesima sfida del Cammino, per Titti. Dividere la nanna con estranei, turnarsi per il bagno, vivere per due settimane con tre magliette e tre pantaloni, per Titti equivale a mettersi in gioco in un campo che non è il suo. Niente boyscout da giovane come Guido, campeggi pfui, vita comoda, insomma. Proviamo, proviamo a superare antichi preconcetti. E così un minuto dopo che la nostra hospitalera ci informa delle regole dello stare insieme, siamo accanto al nostro letto a castello, vicino prudentemente alla finestra e a una presa (per la macchina fotografica). L’hospitalera, la nostra prima hospitalera, è un ricordo indelebile, come il primo amore. E’ talmente tanta l’emozione di iniziare il Cammino che persino una distratta come Titti ha ancora impresso il viso gentile di questa ragazza di 25 anni, castana, esile, che sfodera un buon italiano oltre a un buon inglese e a un buon francese. Se Titti pensa a lei, pensa alla credencial. “E’ intatta, ah già, è il vostro primo giorno”, le aveva detto quando avevamo deciso – grazie alle guide! – di fermarci lì. Quasi strabuzzando gli occhi, Titti le avrebbe voluto chiedere come si potesse distruggere semplicemente camminando la nostra credencial. Ma poi, il sole, la pioggia, i diluvi, l’umido, il cava e metti, oh sì,  altro che, dopo 14 giorni la nostra Compostela era molto più che vissuta!

Ad ogni modo il nostro albergue è proprio bello: un praticello davanti con delle sdraio (un po’ scassate), un’anticamera per gli scarponi (forse, una camera a gas), e poi per 3 euro lavatrice (lavadora) e asciugatrice (la secadora, altrimenti ti arrangi lavando tutto a mano stendendo al sole), per 9 la paella alicantina (quella di verdura, cucinata in due enormi teglie piatte), insalata, vino e il melone nella cena comunitaria (che vuol dire tutti assieme), 4 euro la colazione. Fanno perfino i massaggi. Arriviamo al Sant’Antonio alle 15.30 (da Virgen del Camino siamo partiti alle 11, peraltro dopo un’ora di preparativi in hotel, ma abbiamo anche fatto la nostra sosta-bocadilla, ovvero per il maxi panino di mezzogiorno)  e già siamo cotti per un caldo ferragostano, altro che settembrino: 27-28 gradi, certo, il clima è secco, ma con dieci chili sulle spalle sudi come un muflone. Aggiungiamoci il sole che non dà tregua fino a sera e una riserva di acqua pari a 75 centilitri che si bevono in poche sorsate…

All’albergue siamo in 20, due dei quali francesi, in bici con un’auto d’appoggio, l’età media è sui 60 anni. Moltissime le donne, soprattutto sole. D’altra parte qui davvero non può succederti nulla, se non trovare nuovi amici e condividere la strada. A cena – dopo una cena rigenerante e la prima lavadora – ci troviamo allo stesso tavolo con due donne quebecoise (che si sono conosciute facendo il Cammino, se lo stanno facendo proprio tutto, con una pausa a Leon: le avevamo già incontrate a Virgen, sono loro che ci hanno fatto la prima foto del Cammino e le ritroveremo ancora a lungo. Per noi saranno Guendalina e Adelina…), un’anziana coppia norvegese e una tedesca caciarona e sbevazzona: più che crucca sembra italiana. Ha 38 anni, è del Baden Wuttemberg, capelli neri, occhi azzurri, stazza tedesca: sembra Morticia Adams con 30 chili di più. Canottiera nera, maglietta nera con paillettes,  pantaloni aderenti. Non è proprio un abbigliamento da pellegrina. Racconta di essere atterrata dalla Germania a Santiago, e da lì di aver affittato una macchina che l’ha portata a Leon. Primo giorno di Cammino anche per lei, cinguetta. E’ in Spagna con il marito (classico tedescone, alto, ben piazzato, baffetto da boccale da birra), e il padre che già deve fare i conti con la prima vescica. Hanno due settimane per terminare il Cammino, ma la netta sensazione è che non siano qui con lo spirito adatto. Nel frattempo lei racconta, racconta, racconta: è un’appassionata enologa, apprezza particolarmente i vini spagnoli e quelli italiani. Ci racconta pure di essere stata in primavera nelle Langhe, “ottimi vini ma pessime strade”. Ti pareva se non arriva una critica. Così si scola la bottiglia di vino del nostro tavolo e pure quella del tavolo vicino, con Adelina e Guendalina che se la osservano da capo a piedi allibite.

Pappa alle 19, alle 20 la compagnia del Cammino si disgrega: Adelina e Guendalina, forse perché non ne possono più di sorbirsi le chiacchiere – per di più in inglese – della walchiria, battono in ritirata. Anche i norvegesi, pure loro sono partiti da Leon, ci salutano. E’ già tempo di nanna per molti.  Dopo un po’ di alziamo da tavola anche noi, consci che il nostro inglese fa veramente schifo e che d’ora in poi i rapporti sociali saranno durissimi.

Ai nostri tedeschini non sono bastati i 25 e rotti km a piedi, hanno ancora energia e la usano per pigliarsi l’ennesima bottiglia e andarsene in giardino, sulle sdraio: faranno un bel po’ di casino fino almeno alle undici. Noi comunque non li rivedremo più. Nè lei, nè suo marito, nè suo padre. Hanno abbandonato la strada?

Nel camerone quadrato, alle 22 la luce si spegne. Guido si addormenta subito, Titti ha i lampioni al posto degli occhi. Emozione, nervosismo, pensieri, preoccupazione e soprattutto il terrore di sorprendere Guido in versione russatore. Se dovesse attaccare, nessuno avrebbe scampo. Così Titti si addormenta vigile, pronta a sferrare calci e pugni alla rete del materasso di sopra dove ronfa Guido. Intanto, inizia la lotta con il sacco a pelo a mummia, una lotta che la vedrà soccombere ogni notte. Per vicini, abbiamo la coppietta norvegese e i due francesi in bici con auto d’appoggio. Davanti, Guendalina e Adelina e a fianco loro una signora tedesca, 60 anni, che ha passato ore a curarsi le ferite nei piedi. Nessun russatore in camera, e Guido è crollato in “silenzio”. Prima notte, esame superato.

Intanto, però, già in questi primi chilometri ci siamo accorti di tre cose: 1. gli altri pellegrini hanno tutti zaini molto più piccoli dei nostri. Come diavolo faranno? E dire che- boh – non ci sembrava di aver esagerato; 2. la sera, prima del meritato sonno, tutti scrivono sui quadernini le emozioni della giornata: almeno quel “peso” ce l’hanno anche gli altri; 3. c’è un grande rispetto tra pellegrini: la sera, il pomeriggio, la mattina, si si muove come fantasmi, leggeri come farfalle. Nessuno disturba nessuno. Si usano torce per non inciampare negli zaini, si impara a stare fermi, a non usare sacchetti di plastica che come li tocchi “suonano”, e ad aspettare il proprio turno per una doccia, o una pipì. La regola, non scritta ma incisa nelle teste di ciascuno, è “rispetto”. E’ meraviglioso e miracoloso. Perché poi nella realtà quotidiana non è così? Perché non possiamo rimanere pellegrini di civiltà?

Si dorme fino alle 6, quando i primi pellegrini, approfittando del fresco della mattin, sgusciano dai sacchi a pelo e iniziano una nuova, lunga, giornata.

Domani ci aspettano 30 chilometri. Anzi, 31. Destinazione, Astorga, la capitale della Maragateria e…, aspetto per Titti non secondario, del cioccolato!

pensierino della sera: ma gli alberi da queste parti non li hanno inventati?

di Donatella Tretjak e Guido Barella

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